Interessante intervista all'ex colonnello del Ros Angelo Jannone realizzata da Giacomo Amadori per Panorama. Da leggere. (N.Am.)
Intercettazioni scottanti, magistrati partigiani, ma soprattutto una chiave di lettura sorprendente sulla presunta trattativa Stato-Mafia. Non mancano certo i retroscena su alcuni dei grandi temi dell’attualità giudiziaria nel libro «Eroi silenziosi», scritto dall’ex colonnello del Ros Angelo Jannone, per anni in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata in Calabria e Sicilia. A partire da quando, giovane capitano, sbarcò a Corleone, nella patria di Totò Riina. Un episodio non secondario, visto che proprio quelle indagini avviate da Jannone, contribuirono qualche anno dopo all‚arresto del Capo dei capi di Cosa nostra.
In «Eroi silenziosi», sottolinea l’autore, però, il protagonista non è chi scrive, ma tutti i carabinieri, i marescialli, i poliziotti ed i magistrati e persino mafiosi, confidenti e faccendieri. Non sempre, anzi quasi mai, noti alle cronache, descritti senza retorica e fuori dai soliti cliché, ma nella loro profonda umanità. Jannone descrive anche le difficoltà delle indagini, i mezzi di fortuna, le auto private utilizzate per i pedinamenti. Quelle storie che nelle fiction non si raccontano mai. Si scopre così come siano stati approntati i prototipi delle odierne microspie (le prime collegate direttamente agli impianti telefonici) e avviate le indagini su Riina.
Tra le pagine emerge anche l'isolamento a cui viene condannato da parte dei suoi stessi colleghi un magistrato come Giovanni Falcone che, rammenta l'autore, «aveva un solo credo: il rispetto della legge, anche quando applicarla poteva essere impopolare».
Jannone, partiamo dall’argomento forse di maggiore attualità: la presunta trattativa tra Stato e mafia per evitare le stragi e gli omicidi dei politici agli inizi degli anni ’90. Lei non sembra credere all’ipotesi di un coinvolgimento del suo ex comandante del Ros, il generale Mario Mori. Non è che il suo giudizio è influenzato dalla vecchia amicizia?
Forse. Sa com'è i sentimenti d'affetto incidono (ride). Ma paradossalmente voglio sperare che il quadro accusatorio che si sta costruendo intorno a Mori sia basato su prove granitiche e ineccepibili. Solo in questo caso non perderei la fiducia in uno Stato che indaga, minandone l’onorabilità, con incredibile zelo su alcuni dei suoi migliori e più fedeli servitori. Purtroppo ho motivo di pensare – analizzando atti e fatti disponibili anche su Internet- che gli si stia confezionando un abito sartoriale su misura e che queste misure siano state prese fuori dalle aule, magari facendo una incosapevole cortesia a Cosa Nostra. Eppoi ci sono i fatti.
Quali?
Ad esempio l'inchiesta Mafia-appalti, all'origine di molti mali del Ros. Anche il boss pentito Giovanni Brusca agli esordi della sua collaborazione aveva dichiarato che delle indagini di Giovanni Falcone preoccupava soprattutto il suo interesse per le commesse pubbliche controllate da Cosa nostra.
Se non erro ne parla nel suo libro…
Ricordo che nel ‘94, quando Mori mi volle al Ros intendeva inviarmi a Palermo ove ero richiesto dalla Procura per riprendere le indagini sui rapporti mafia e massoneria e mi disse «non mi dica di no, già i rapporti con la Procura di Palermo sono tesi, sa com'è, l'inchiesta Mafia-appalti a molti non è piaciuta». Forse a troppi. Quel fasciolo minava il core business della Piovra ed i suoi rapporti con grandi imprese e politica.
Nel libro si parla spesso dell’importanza per le sue inchieste delle intercettazioni realizzate in modo artigianale. Che cosa pensa dell’uso che ne fanno oggi magistrati, investigatori e anche i giornalisti?
Non possono essere i cronisti a farsi carico del problema e autocensurarsi. Non è neppure un problema di norme. Che esistono. Purtroppo a volte ne viene stravolta l’interpretazioni in nome di una troppo sbandierata e mal intesa «legalità». E così ci si dimentica troppo spesso invece dell’etica e del buon senso. Alla ricerca del sensazionalismo e della ribalta mediatica. In passato, quando gli investigatori investigavano ed i pm controllavano la correttezza del loro operato, i primi capivano da soli se, ad esempio, alcune conversazioni non avevano nulla a che vedere con l'obiettivo dell'indagine. E si annotava semplicemente «non pertinente». Il problema veniva così risolto alla radice, scongiurando il rischio che finissero sui giornali conversazioni piccanti, ma senza valenza processuale.
E perché oggi invece tutte le conversazioni diventano «pertinenti» e quindi pubblicabili?
Non escludo che a volte cio' avvenga per la malizia di alcuni magistrati inquirenti che lasciano trascrivere o dispongono che venga trascritto tutto nelle informative, sapendo perfettamente che ci sarà un momento in cui quegli atti diventeranno pubblici.
Secondo lei perché è venuta meno la funzione di controllo di molti inquirenti?
Forse perché vi è un’eccessiva commistione tra media e ambienti giudiziari. Un sintomo? informative della pg e atti processuali mutuano termini giornalistici come «inquietanti» o «pezzi deviati» o «rumors». Una volta si soppesavano le singole parole contenute negli atti processuali, per non metterne a rischio la credibilità. Ciò che si scriveva era la fotografia fedele di quanto le indagini portavano alla luce. Oggi le informative e le ordinanze sembrano scritte per un copia e incolla sui giornali. I capiredattori devono solo scegliere un titolo ad effetto. Ma a volte anche quello è un bel «virgolettato» estrapolato dalle carte giudiziarie.
Di chi è la colpa?
Le faccio io una domanda: lei si immagina magistrati come Falcone o Paolo Borsellino a scrivere una prefazione ad un libro scritto da un giornalista, che anticipa un'inchiesta giudiziaria di quello stesso pm?
A chi si riferisce?
Al procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia che ha scritto la prefazione del libro «La Trattativa», di Maurizio Torrealta, per esempio. Ma anche a quei pubblici ministeri promotori di siti Internet a difesa della credibilità dei testimoni che utilizzano per le loro inchieste.
In questo secondo caso di chi parla?
Qui dovrei darle una risposta forse troppo articolata. Preferisco sottolineare che ci sono uomini accusati sul nulla e che chi li accusa viene protetto in tutte le sedi, anche quelle in quelle non istituzionali, persino sul web. Per carità, il mondo è bello perché è vario, ma allora non ci deve sorprendere che la terzietà dei magistrati venga talvolta messa in discussione. Che senso allora continuare ad avere nel codice norme ipocrite che prevedano, ad esempio, che il «pm svolga indagini a favore dell'indagato»?
Nel suo libro rivela come le intercettazioni non sempre abbiano lo stesso peso…
Direi che le indagini non sempre hanno lo stesso peso. Le faccio un esempio. Dalle ambientali commissionate da Falcone a casa delle sorelle di Leoluca Bagarella a Corleone saltarono fuori i nomi di due magistrati. A loro i famigliari di Bagarella avrebbero dovuto rivolgersi, attraverso Giovanni Brusca o Francesco Madonia, per far ottenere dei benifici al congiunto, appena scarcertato, ma con il divieto di soggiorno in Sicilia. Quelle conversazioni furono trasmesse per competenza alla procura di Caltanissetta, ma nell’imminenza della partenza di Falcone per Roma, fui convocato da un magistrato della città nissena che mi chiese un avvallo per tenere sottochiave quel fascicolo, «per non compromettere le ricerche di Riina» mi disse. Per rispetto delle gerarchia e della funzione, da buon carabiniere, gli risposi che il pubblico ministero era lui e che quindi avrebbe dovuto fare quello che riteneva in coscienza più opportuno. Su quelle conversazioni non ci fu nessuno sviluppo investigativo. Perché secondo lei? Vorrei evitare i giudizi personali, ma se confronto questo episodio con casi in cui eccellenti investigatori, ma anche politici di primo piano, sono stati infangati e lo sono tutt’oggi per dichiarazioni generiche di pentiti o di testimoni di giustizia, c’è di che sconfortarsi.