Altri sette milioni di euro sono stati sequestrati a Palermo alle eredi di Ezio Brancato, l’imprenditore defunto anni e che, secondo l’accusa con gli appoggi della mafia, si aggiudicò i lavori per la metanizzazioni in moltissimi Comuni della Sicilia, ma anche dell’Abruzzo. Si tratta di somme giacenti su tre conti presso Unicredit, individuati nel corso di ulteriori indagini patrimoniali a carico della vedova, Maria D’Anna, e delle figlie di Brancato, Monia e Antonella. Il nuovo sequestro é stato disposto dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, presaieduto da Silvana Saguto. Alle tre donne la scorsa settimana era stato sequestrato un patrimonio del valore di 48 milioni. Si tratta di un ingente patrimonio costituito da società, attività commerciali, immobili di pregio e disponibilità finanziarie sequestrato dalla Guardia di finanza di Palermo in esecuzione di un provvedimento emesso dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo su proposta della locale Procura della Repubblica.
Il sequestro è il risultato di un’articolata attività di indagine svolta dal nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, su delega e sotto la costante direzione del procuratore aggiunto Vittorio Teresi e del sostituto procuratore della Repubblica Dario Scaletta, che ha fatto emergere le infiltrazioni di Cosa Nostr e dei suoi leader storici, fra cui Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro, negli affari delle società appartenenti ad un gruppo imprenditoriale che ha curato, a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, la metanizzazione di diverse aree del territorio siciliano.
Le indagini si sono concentrate in primo luogo sulla genesi del gruppo, costituito negli anni ‘80 da un dipendente pubblico, successivamente divenuto “imprenditore”, grazie all’investimento di ingenti risorse finanziarie di dubbia provenienza e comunque non giustificate dalle sue disponibilità, che si è presto sviluppato grazie alla protezione dell’organizzazione di Cosa Nostra e ad appoggi politici – in particolare dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino – arrivando ad ottenere ben 72 concessioni per la metanizzazione di Comuni della Sicilia e dell’Abruzzo, i cui lavori di realizzazione sono stati in più occasioni affidati in sub appalto ad imprese direttamente riconducibili a soggetti con precedenti specifici per mafia e ad altre comunque vicine alla criminalità organizzata, in una logica di costante e reciproco vantaggio fra il gruppo e l’organizzazione criminale.
A dimostrazione del patto, i magistrati della Procura palermitana e i finanzieri del Gruppo d’investigazione sulla Criminalità organizzata – Gico – del Nucleo di polizia tributaria di Palermo, hanno sottoposto a puntuali riscontri le univoche dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia – fra cui Giovanni Brusca, Vincenzo Ferro, Antonino Giuffrè – e il contenuto di alcuni pizzini sequestrati nel tempo a boss mafiosi, esaminato decine di contratti di appalto e sub appalto per risalire agli interessi mafiosi che si sono celati dietro l’esecuzione di lavori connessi alle opere di metanizzazione, nonché ricostruito la “storia economico finanziaria” delle diverse società del gruppo in parallelo a quella della ricchezza accumulata nel tempo dalla famiglia del fondatore, subentrata nelle gestione delle diverse società dopo il decesso di questo, avvenuto nel 2000. L’indagine della Procura della Repubblica di Palermo e delle Fiamme gialle si è poi estesa alle operazioni di cessione dell’intero pacchetto azionario e del patrimonio delle società, avvenuta nel 2004, per un corrispettivo di circa 115 milioni, che ha permesso agli eredi dell’imprenditore di ripulire gli ingenti proventi acquisiti grazie all’appoggio di Cosa nostra nella costituzione di nuove società, nell’avvio di fiorenti attività commerciali e nell’acquisto di beni immobili a Palermo e nella provincia di Sassari, tra appartamenti, locali commerciali, opifici industriali, ville ed immobili di pregio, nonché nella formazione di ingenti posizioni finanziarie. Sulla base delle risultanze d’indagine, la Procura della Repubblica di Palermo ha richiesto alla sezione Misure di prevenzione del Tribunale del capoluogo siciliano l’applicazione del sequestro del patrimonio societario, immobiliare e finanziario attualmente nella disponibilità della famiglia dell’imprenditore, nel tempo accumulato grazie ai rapporti di reciproco vantaggio instaurati con Cosa Nostra, quantificato in 48 milioni.
Tra i beni in sequestro, in Sicilia e Sardegna, società immobiliari e di produzione di metalli preziosi, imprese agricole, attività commerciali di prodotti petroliferi, combustibili ed oggetti d’arte, appartamenti, uffici, locali affittati ad importanti aziende e catene commerciali – molti dei quali situati nel centro di Palermo – immobili di pregio, amplissimi locali commerciali, opifici industriali, autorimesse, magazzini e disponibilità bancarie.