Trattativa Stato-mafia, la versione di Nicolò Amato
“La mafia ha voluto la mia testa per la durezza della mia politica carceraria nei confronti della criminalità organizzata: i documenti in mio possesso dimostrano che la richiesta è stata sostanzialmente accolta con la mia destituzione il 4 giugno del 1993, non so per responsabilità di chi, ma certamente allo scopo di evitare ulteriori stragi”. Nicolò Amato, l’ex capo del Dipartimento dell’ Amministrazione Penitenziaria (Dap), in un memoriale inviato di recente alla Commissione parlamentare Antimafia, e ora anche nel suo libro I giorni del dolore. La notte della ragione. Stragi di mafia e carcere duro (Armando Editore) ha ricomposto una pagina di storia patria rimasta nell’oblio per più di diciannove anni. Secondo il Professore, Cosa Nostra chiese la sua testa e dalla parte dello Stato qualcuno gliela concesse nel giugno del ’93.
Qualche mese prima dell’avvicendamento la mafia inviò una lettera anonima a Oscar Luigi Scalfaro, l’allora presidente della Repubblica, invitandolo a rimuovere “il dittatore Amato e gli scherani al suo servizio”. Scalfaro non fu il solo a ricevere la lettera, la ricevettero anche le autorità interessate dalle stragi dell’estate del 1993. Un documento simile era stato inviato anche al papa Giovanni Paolo II, dopo l’attentato alla chiesa di San Giorgio al Velabro e San Giovanni a Roma, e al cardinale di Firenze dopo la strage in via dei Georgofili; cioè alle Autorità maggiormente interessate ai luoghi oggetto degli attentati. “Coincidenze molto strane”, dice ancora l’ex capo del Dap. Il motivo del contendere era l’articolo 41-bis”.
Professore, lei ha scritto che un presidente della Repubblica italiana ha accettato di ridurre gli effetti del 41 bis per compiacere la mafia. E’ uno scenario inquietante. “Non dico questo, ma certo, se una trattativa vi è stata, io ne sono stato la prima vittima. E peraltro, più che di una trattativa vera e propria si è trattato di una sorta di tacita intesa – addebitabile non so a chi – sulla base di una pressione e di una richiesta esplicita della mafia, espressa nella lettera inviata alla fine del febbraio del 1993 al presidente Scalfaro. E a questa pressione della mafia, rafforzata dallo scenario delle stragi che si prospettavano sullo sfondo, è stata data, sostanzialmente, una risposta positiva, con la mia destituzione”.
La mafia scrive a Scalfaro per chiedergli un favore, la sua testa, in cambio di che cosa o di chi? “Per Cosa Nostra ero ormai diventato “insopportabile”, avevo applicato il 41 bis a tutti i detenuti mafiosi con un minimo di rilievo criminale: alla fine del mio mandato nelle carceri c’erano più di millequattrocento detenuti sottoposti al 41 bis. Subito dopo la mia destituzione, la politica penitenziaria italiana è mutata, è diventata più morbida: sono cominciate le revoche e i mancati rinnovi del 41 bis, tanto che in pochissimo tempo i detenuti di mafia sottoposti al carcere duro da oltre millequattrocento sono diventati meno di quattrocento”.
Una rivoluzione senza dubbio copernicana, cosa può essere successo? “Il 4 giugno del 1993 sono uscito dal ministero della Giustizia e solo da poco sono riuscito a ricostruire i fatti: non facevo più parte delle istituzioni, quindi non avevo la possibilità di sapere. Solo di recente ho scoperto che a partire dal 26 giugno del 1993 vi sono quattro o cinque appunti del Dap, firmati dai miei successori, in cui si prospetta al ministro della Giustizia una politica più morbida che si preoccupa espressamente di ‘non acuire la tensione all’interno degli istituti di pena’. Ed è una politica che prevede una progressiva diminuzione del numero dei detenuti sottoposti al carcere duro”.
Nel suo libro si dice che una volta ricevuta la lettera il Presidente della Repubblica convocò il capo dei cappellani carcerari monsignor Curioni, e comunicò che il suo tempo al Dap era scaduto, e quindi invitava Curioni a collaborare con il ministro della giustizia Conso nella ricerca del suo sostituto. Una procedura molto particolare, non crede? “Proprio dopo questo colloquio fu comunicato al ministro Conso che dovevo lasciare il Dap. Eppure si trattava di materia che non rientra nella competenza del presidente della Repubblica, ma piuttosto del ministro della Giustizia e del Governo. C’è un particolare inquietante: monsignor Curioni, primo destinatario della decisione della mia destituzione, era la medesima persona che al tempo del sequestro Aldo Moro era stata incaricata dal pontefice Paolo VI di mediare con i brigatisti rossi detenuti in carcere una sua liberazione”.
Qual era il suo rapporto con Claudio Martelli? “Eccellente: lui ha firmato a mia richiesta, nel luglio del 1992, 532 decreti 41 bis per detenzione di detenuti di mafia. E successivamente, nel settembre del 1992, lo stesso Martelli mi ha rilasciato una delega a firmare direttamente i decreti di 41 bis quando ne avessi ritenuto l’opportunità, benché la firma del 41 bis sia di esclusiva competenza del Ministro. Sulla base di questa delega, il sottoscritto e il Dap da me diretto ha firmato senza intermediari 567 decreti 41 bis per detenuti di mafia”.
Il ministro Martelli supportò la sua battaglia, con il suo successore, Giovanni Battista Conso, la battaglia dello Stato contro la mafia segna il passo. Perché? “Conso ha cominciato a revocare i 41 bis solo quando sono stato allontanato. Nel novembre del 1993, lui ha revocato di colpo oltre un centinaio decreti 41 bis, d’accordo con i miei successori. Riassumendo: le revoche e le mancate proroghe del ministro avvengono dopo che sono andato via dal Dap. Qual è il suo giudizio dell’epoca e chi è la mafia adesso? “Lo Stato, le istituzioni dello Stato, hanno reagito con coraggio, decisione e dignità sia agli episodi legati al terrorismo politico sia alla violenta aggressione del terrorismo mafioso. La mia destituzione coinvolge settori particolari, persone che non spetta a me individuare, e rappresenta certamente una macchia per le istituzioni. Tuttavia, il nostro Stato mantiene la dignità della propria storia e dei propri compiti”. “La forza della mafia è la forza di connivenze, connessioni sociali, economiche e politiche; nel libro sostengo che non si può combattere e sconfiggere tagliando i collegamenti fra criminalità, politica, economia e finanza”. (di Paolo Salvatore Orrù per Tiscali)
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