Una ricerca della Fondazione Icsa svela le rotte del traffico di beni archeologici, spesso attraverso gli itinerari delle armi e della droga, con il supporto delle mafie italiane. Il più che notevole incremento (+412%) delle quote di importazione di beni archeologici e artistici provenienti dall’Iraq e diretti negli Usa rimanda direttamente al traffico di antichità su cui lucrano i gruppi terroristici di matrice jihadista. Un incremento del commercio di antichità che ha riguardato anche oggetti di piccole dimensioni come ceramiche, anfore monete e statuette provenienti da Siria e Turchia e diretti negli Usa. È “il petrolio di pietra”, come lo definisce uno studio della Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis), il centro studi sui temi d’intelligence e analisi militare presieduto dal generale Leonardo Tricarico. Il commercio di manufatti antichi ha rappresentato e rappresenta ancora oggi un’importante fonte di reddito per il terrorismo di ispirazione jihadista.
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Sono scolpite nella memoria le immagini di distruzione e saccheggio del patrimonio culturale che a partire dal nuovo millennio si sono periodicamente ripresentate nei paesi in cui i fondamentalisti hanno preso il potere. All’inizio del 2001, i talebani afghani, incoraggiati da al-Qaeda, fecero esplodere i giganteschi Buddha di Bamiyan. Ma, qualche mese dopo, l’appetito jihadista per l’iconoclastia violenta dimostrò di essere tremendamente pericoloso anche per l’Occidente con la distruzione delle Torri Gemelle, icone spettacolari degli Stati Uniti e della loro cultura. Il terrorismo, dopotutto, è anche una guerra di simboli. Ma la distruzione delle vestigia della cultura nemica non è solo una questione di iconoclastia. A telecamere spente, i jihadisti non hanno esitato a saccheggiare i siti archeologici e a rivendersi il patrimonio, servendosi dei video delle distruzioni per trasmettere l’idea di un pericolo imminente e dilagante e contestualmente alzare il valore di mercato dei beni minacciati.
“Certi giorni siamo combattenti; altri siamo archeologi”, aveva dichiarato in un’intervista Jihad Abu Saoud, un ribelle di 27 anni della città siriana di Idlib, rivelando di aver rinvenuto personalmente alcune tavolette di Ebla risalenti all’Età del Bronzo.
Il Rapporto di ricerca rientra nell’ambito di un progetto più ampio, denominato “Fighting terrorism on the tobacco road” (http://www.icsanotraffick.com), supportato da Pmi Impact – un programma di finanziamento internazionale promosso da Philip Morris International a sostegno di progetti dedicati al contrasto dei traffici illegali e delle attività criminali correlate. Secondo i ribelli siriani, il bottino di uno scavo archeologico poteva fruttare in media 50.000 dollari sul mercato nero. Un saccheggio che oltre ad essere un danno per il patrimonio dell’intera umanità, costituisce una mancata opportunità di sviluppo per il futuro.
Si pensi ad esempio che il turismo in Siria prima del 2011 rappresentava il 5% del PIL. La dimensione economica del commercio illecito di oggetti d’arte e beni culturali è stimata dall’Ocse in circa 6,3 miliardi di dollari a livello globale. Secondo il Rapporto “Monumental Fight” del Center on Sanctions and Illicit Finance, pubblicato nel novembre del 2015, tra il 2010 e il 2014 si è verificato un balzo del 412% nelle importazioni legali di beni archeologici e artistici provenienti dall’Iraq e diretti negli USA.
Le importazioni di monete di argento, bronzo e altri materiali nobili provenienti dalla Turchia hanno raggiunto un picco di incremento del 129%, quelle provenienti da Israele del 466% e del 676% quelle dal Libano (tutti paesi, questi, confinanti con la Siria e, nel caso della Turchia, anche con l’Iraq). L’incremento del traffico di antichità da aree in guerra e da teatri di crisi – secondo lo studio Icsa – è ampiamente imputabile alle attività criminali poste in essere dai gruppi terroristici impegnati nelle aree di conflitto.
Dalla Siria all’Iraq le bande criminali che hanno contrabbandato i reperti sotto l’egida dell’Isis hanno utilizzato le stesse vie della droga, delle armi e dei migranti. Attraverso i confini di Turchia e Libano e in misura minore anche Giordania, le antichità, da città come Manbji e Tal Abyad in Siria giungono sino a Sanliurfa e Gaziantep in Turchia o anche in Libano sino a Beirut.
Le caratteristiche fisiche dei territori del Nord Africa e del Medio Oriente, con confini molto estesi, aperti e con ampie zone desertiche difficili da controllare, favoriscono le attività di contrabbando. Inoltre, i trafficanti di antichità approfittano delle lacune nel quadro legislativo in materia di traffico di opere d’arte o nella sua attuazione.
Una volta giunti in questi ‘hub’, i manufatti percorrono diverse rotte. La prima è via terra e arriva in Bulgaria e Romania dove altri intermediari contrabbandano i reperti nei paesi dell’Est europeo (in particolare in Russia) e nell’Europa settentrionale (Germania e Svizzera). Traffici, questi, che sfruttano le stesse reti delle mafie internazionali. “Si tratta di attività criminali che, per essere realizzate, necessitano di una vasta rete relazionale di complicità esterne alla associazione criminale”, dichiara Franco Roberti, già Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo.
In Italia i beni trafugati dalle zone di guerra del Nord Africa giungerebbero attraverso la Turchia approdando nel porto di Gioia Tauro, come recentemente evidenziato da un’inchiesta della procura di Salerno. Sembra che il trasporto dalla Turchia all’Italia avvenga via mare su navi e container di armatori cinesi. I reperti verrebbero poi presentati da intermediari a possibili acquirenti secondo regole di riservatezza ben precise, o anche scambiati con armi (kalashnikov e Rpg anticarro). Intermediari e venditori apparterrebbero alle famiglie della ’ndrangheta e alla camorra campana.
Supponendo una correlazione diretta con la dimensione dei mercati legali si può affermare che l’83% degli oggetti d’arte sono scambiati in tre Paesi: Stati Uniti (39%), Cina (22%) e Regno Unito (22%), ovviamente venditori e acquirenti possono provenire da qualsiasi parte del mondo. Per portare a buon fine queste operazioni di vendita è necessaria una rete criminale organizzata con connessioni a livello globale, anche se i gruppi criminali responsabili dei saccheggi si professano di ispirazione religiosa ed autonomi nei loro affari.
Un collegamento, questo, tra terroristi e le reti della criminalità organizzata confermato dalla Direzione Nazionale Antimafia nella cui relazione del 2016 si legge che “l’evoluzione del terrorismo internazionale e le indagini finora svolte sulle attività delittuose dello Stato Islamico e dei suoi affiliati (o aspiranti martiri) nel nostro Paese confermano l’intreccio fra criminalità organizzata di tipo mafioso e terrorismo internazionale. Più che un intreccio, una totale compenetrazione”.
È quindi fondamentale comprendere meglio come e perché è necessario che i gruppi terroristici di ispirazione jihadista siano connessi con la criminalità organizzata di altri paesi (tra cui l’Italia). Tale necessità è dovuta al fatto che i percorsi dei traffici attraversano territori controllati da altre organizzazioni criminali con cui inevitabilmente i terroristi devono contrattare.
Come spiega il prefetto Carlo De Stefano, vicepresidente della Fondazione ICSA e project leader della ricerca, “Una volta aperta una rotta di traffico illegale, questa viene utilizzata e ottimizzata per il trasbordo di diverse categorie merceologiche, oltre che per il transito di migranti. Ne abbiamo trovato conferma, ad esempio – continua De Stefano – nella recente indagine della DDA di Palermo e della GdF, denominata Skorpion Fish, che ha svelato un fiorente contrabbando di sigarette in mano ad un’organizzazione italo-tunisina dedita anche al traffico di migranti, trasportati su gommoni d’altura e sbarcati su approdi fantasma delle coste marsalesi”.
La project manager della ricerca, Elettra Santori, aggiunge che “oltre alle consuete difficoltà di quantificazione di un mercato illegale, la stima del volume di traffico di antichità comporta l’ulteriore criticità di una commercializzazione occulta che viaggia anche online e attraverso i social network, tra cui Facebook, WhatsApp e Snapchat”.
Gli attori coinvolti in questo traffico sono molti e di varia natura. Per primi ci sono i saccheggiatori che si occupano del prelievo di oggetti vendibili sul mercato. Questi possono essere gruppi criminali organizzati o singoli individui. Alcuni sono incaricati da esperti, consapevoli del valore degli oggetti in gioco e spesso agiscono all’interno di una rete organizzata comprendente funzionari corrotti o professionisti del mercato dell’arte che facilitano il riciclaggio degli oggetti e sono interessati ad ottenere il miglior prezzo. Altri saccheggiatori sono invece individui completamente inconsapevoli del valore degli oggetti trafugati, senza alcuna idea del canale di vendita o interessati solo al valore grezzo del materiale. In questo caso il rischio è che l’oggetto venga distrutto per recuperare la materia prima preziosa.
“La fine dello Stato Islamico su base territoriale – spiega il generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa – non significa la fine del Califfato né della minaccia che esso rappresenta per l’Occidente. di qui la perdurante attualità e necessità delle analisi volte al monitoraggio delle forme di finanziamento del terrorismo jihadista”. Come afferma Lamberto Giannini, Direttore centrale della Polizia di Prevenzione, “è possibile che, in assenza di un territorio di riferimento, il Califfato possa diventare una sorta di realtà virtuale che continua a inviare un messaggio di odio e ad incitare al combattimento”.
“Lo Stato Islamico, per quanto deterritorializzato, è ancora efficiente, sia sul piano della propaganda che su quello della minaccia militare. Il Rapporto della Fondazione Icsa ne monitorerà la capacità di autofinanziamento attualmente ridotta ma ancora dinamica, affrontando -conclude Tricarico- le annesse questioni riguardanti i rapporti tra il jihadismo e le organizzazioni criminali mafiose”.
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