L’ultimo permesso per andare in ritiro spirituale in convento risale ad aprile di quest’anno: per due giorni Gaspare Spatuzza, autorizzato dal Tribunale di sorveglianza di Roma, ha potuto pregare in pace. La metamorfosi del killer di Brancaccio, un tempo detto ‘u tignusu, è definitiva (e irreversibile): da spietato esecutore degli ordini dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss indiscussi del quartiere palermitano oggi all’ergastolo, a uomo di fede e di giustizia. I dubbi su Cosa nostra e sulla liceità (dal punto di vista delle regole criminali, ovviamente) delle azioni delle cosche sono arrivati molti anni fa. Ma ogni frase dissonante, qualsiasi perplessità, qualsiasi incertezza nel cammino violento e sanguinario della cosca veniva stoppata dai Graviano di cui Spatuzza era assolutamente succube.
Un percorso umano che viene raccontato dal suo avvocato Valeria Maffei e supportato dalle analisi dei magistrati di varie procure antimafia del nostro paese che hanno raccolto i racconti del pentito i quali hanno consentito di riaprire, tra l’altro, l’inchiesta sulla strage di Via D’Amelio in quel maledetto 19 luglio 1992 in cui morirono Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. Oggi quell’inchiesta è chiusa e ci si avvia verso la revisione del processo che aveva sancito con condanne definitive la colpevolezza di altre persone. Ma questo è un altro discorso. C’è stato un momento, nella vita di quest’uomo che potremmo definire succube dei Graviano in è riuscito a guardare le cose con l’occhio delle vittime, dimostrando di avere più intelligenza di quanta gliene attribuissero i suoi capi, e ciò è avvenuto quando si è distaccato da Filippo Graviano. Una presa di coscienza che avviene nel 2000: a un certo punto Spatuzza decide di stare da solo, di non condividere più spazi con i suoi ex amici. Viene messo in isolamento. E comincia a pensare a se stesso a quelle cose che poi ripeterà in varie occasioni pubbliche (udienze di processi in cui è imputato insieme ad altri, soprattutto) o in colloqui privati con i magistrati delle procure antimafia che lo hanno sentito e a tutti ha spiegato che non condivideva la follia delle stragi terroristiche né colpire i bambini. “A un certo punto – dice l’avvocato – ha realizzato: mio Dio cosa ho fatto? Sono un mostro”.
Spatuzza è un uomo nuovo, secondo il racconto che ne fanno anche i magistrati come il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari che lo ha incontrato in decine decine di occasioni a partire da quel giugno del 2008 quando diventa ufficiale la collaborazione di Spatuzza con la giustizia: il procuratore ha avuto modo di constatare e comprendere la sofferenza dell’uomo che ha scelto di cambiare. Del resto lui stesso, l’ex reggente del mandamento mafioso di Brancaccio, aveva motivato la sua collaborazione, nei colloqui che ha avuto con il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, con un “sincero pentimento basato su una autentica conversione religiosa e morale, oltre che sul desiderio di riscatto” si legge in uno dei tanti atti giudiziari. Un pentimento, quello dell’ex boss, che secondo il racconto fatto da Massimiliano De Simone, il cappellano del carcere del L’Aquila che tra il 2008 e il 2009 ha raccolto le confidenze di Spatuzza, ha alla base un episodio che notevolmente scosso il killer di Brancaccio: l’omicidio di don Pino Puglisi, da lui compiuto insieme a Salvatore Grigoli, il 15 settembre del 1991. “La conversione di Spatuzza è vera, verissima. Niente sconti in cambio del suo pentimento. Don Puglisi lo ha cambiato dentro – ha raccontato don Massimiliano – A me non risulta che lui abbia chiesto chissà che cosa: uscire, avere sconti di pena o quant’altro. Anzi, lui ha sempre detto che il carcere era il posto opportuno per portare avanti quella che era la sua preghiera, nel silenzio e nella contemplazione”.
E’ stato lo stesso Spatuzza a raccontare l’episodio di Don Puglisi al cappellano del carcere in uno dei tanti incontri: “Mi ha raccontato – ha detto don Massimiliano – che qualche giorno prima era stato mandato a fare un sopralluogo, per preparare l’esecuzione. E già allora era rimasto colpito dal sorriso , mite, di quel piccolo prete indifeso. Poi quello stesso sorriso lo rivide il giorno dell’omicidio mentre il suo complice, Salvatore Grigoli, stava per premere il grilletto”. Don Massimiliano ha potuto cogliere l’aspetto della sofferenza di un uomo che ha compiuto una quarantina di omicidi e ha partecipato all’organizzazione ed esecuzione delle stragi di mafia più efferate: “E’ stato lui a cercarmi – dice -. Quando è arrivato all’Aquila aveva già iniziato un suo percorso, con il cappellano del carcere di Ascoli Piceno da cui proveniva. Mi ha voluto raccontare tutta la sua vita. Colloqui lunghi, ogni volta tre ore. Un giorno sì e un giorno no. Dialoghi intensi, spesso interrotti dal pianto. Ho visto con i miei occhi il rammarico e la vergogna di Spatuzza mentre raccontava tutto il male compiuto nella sua lunga carriera criminale”.
Certo fa un po’ impressione ascoltare Spatuzza che si impietosisce per i morti nella strage dei Georgofili a Firenze oppure per la morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido per ordine di Giovanni Brusca dopo 779 giorni di prigionia, e prova a cercare comprensione, fino a chiedere perdono: “Chiedo perdono a tutti, alla famiglia del piccolo Giuseppe e alla società civile, che abbiamo violentato e oltraggiato. Noi siamo veramente responsabili della fine di quel bellissimo angelo a cui abbiamo stroncato la vita. Anche se non l’abbiamo ucciso, io e i miei coimputati siamo colpevoli del sequestro, quanto della morte del ragazzino e ne daremo conto, non solo in questa vita ma anche domani dove troveremo qualcuno ad aspettarci”.
Ora si è in attesa del nuovo processo ai veri responsabili della strage di Via D’Amelio: saranno mesi duri e difficili. Verranno fuori verità su chi ha fatto la strage e su chi l’ha pianificata e voluta, sui depistaggi e sulla responsabilità di quegli uomini dello Stato che dovevano indagare bene e non lo hanno fatto. Si vedrà. Spatuzza, che studia Teologia (ha già dato 12 esami) aspetta che tutta questa storia finisca per poter continuare a studiare e laurearsi. E voltare pagina definitivamente.
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