L’eroe antiracket in realtà era un favoreggiatore della mafia. E forse qualcosa di più, ma su questo le indagini sono in corso. Le accuse nei confronti di Stefano Italiano, presidente della cooperativa agricola Agroverde di Gela, sono piuttosto gravi e sconvolgenti visto che l’uomo è noto soprattutto per aver denunciato il racket mafioso e dal 2005 era scortato dagli uomini dello Stato. L’accusa, sulla base del quale gli uomini della direzione investigativa di Caltanissetta hanno messo i sigilli ai beni della coop per un valore di 32 milioni, è di riciclaggio aggravato dall’aver favorito Cosa nostra e la Stidda, l’altra temibile organizzazione criminale del nisseno. In pratica, secondo le ipotesi della procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari, che si sono avvalsi anche del racconto di due collaboratori di giustizia (Luigi e Emanuele Celona) Italiano avrebbe riciclato enormi somme di denaro proveniente dalle attività illecite delle cosche mafiose nissene e avrebbe acquisito indebitamente contributi pubblici (in particolare la legge 488/92) destinati alla ristrutturazione degli impianti produttivi della cooperativa che venivano poi realizzati da imprese riconducibili al clan mafioso dei Madonia.
Secondo l’accusa il meccanismo per riciclare il denaro della mafia era attuato attraverso l’aumento del capitale sociale della cooperativa che veniva falsamente attribuito ai soci conferitori ma che in realtà era il frutto di reinvestimento dei capitali di provenienza illecita. Sotto accusa sono finiti non solo i collaboratori di Italiano (due) ma anche funzionari e impiegati di una banca di gela già appartenente al gruppo Ambrosiano-Veneto e oggi controllata da Banca Intesa (sette) i quali non avrebbero applicato la normativa antiriciclaggio: tutti sono iscritti nel registro degli indagati. Secondo la ricostruzione degli inquirenti l’ingresso della mafia nella cooperativa risalirebbe al 1998, quando l’Agroverde aveva presentato un progetto per ottenere finanziamenti pubblici della legge 488, da destinare appunto alla realizzazione dei capannoni. Il progetto venne approvato dal ministero per le Attività Produttive nel 1999 e nel 2000 incominciarono ad arrivare i primi fondi. Nell’arco di tre anni vennero erogati tre miliardi di lire. Ma secondo gli inquirenti alla ricapitalizzazione avrebbero proceduto i vertici di Cosa nostra e della Stidda, attraverso la falsificazione dei documenti necessari, e non i soci della cooperativa come invece previsto per legge. «Questa cooperativa -ha spiegato il procuratore Sergio Lari- era divenuta una sorta di cavallo di Troia, utilizzato dai clan per appropriarsi illecitamente di fondi pubblici, distogliendo somme dall’attività produttiva. Una sorta di cassa a disposizione della mafia. L’ordinanza di custodia cautelare non è scattata perché era interesse della Procura bloccare questo giro».
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