Il rapporto tra mafia e politica e il rapporto di scambio tra boss e candidati alle elezioni si perfezionano anche se l'aspirante parlamentare non viene eletto. Lo scrive la Cassazione, nella sentenza 5978, che il 19 novembre scorso ha in parte definito e in parte riaperto la posizione di Domenico Miceli, l'ex assessore alla Salute del Comune di Palermo, definito dai supremi giudici «giovane e promettente esponente politico del Cdu», che però «aveva accettato di volgere, nel 2001, il ruolo di trait d'union, di intermediario, tra Guttadauro Giuseppe, esponente di spicco di Cosa nostra, e Cuffaro Salvatore, proprio mentre quest'ultimo era in procinto di essere eletto presidente della Regione».
Mimmo Miceli è stato riconosciuto colpevole di concorso in associazione mafiosa, ma la sesta sezione della Cassazione (che ha depositato nei giorni scorsi i motivi della decisione) ha rinviato gli atti a Palermo, perchè i giudici di merito stabiliscano se concedergli o meno le attenuanti generiche: cosa che potrebbe ridurre la pena, attualmente fissata in sei anni e mezzo. Totò Cuffaro, ex governatore dell'Isola ed ex senatore del Pid, ne sta invece scontando sette per un reato sulla carta meno grave, il favoreggiamento aggravato all'agevolazione di Cosa nostra. Nella ricostruzione della Cassazione c'è il patto tra Miceli e il boss di Brancaccio Guttadauro: «Un rapporto continuativo di scambio reciproco di favori, tale da costituire un contributo alla vitalità dell'associazione medesima». E pure tra Guttadauro e Cuffaro c'era «un rapporto diretto». Il collegio presieduto da Adolfo Di Virginio parla di «disponibilità chiaramente dimostrata» da Mimmo Miceli «nei confronti del reggente della famiglia di Brancaccio e degli interessi che a lui facevano capo». Oltre ad andare a casa del capomafia – fatto accertato grazie alle intercettazioni realizzate dal Ros – il candidato non eletto alle regionali del 2001 stese con Guttadauro i programmi elettorali e si fece appoggiare alle urne. In cambio, in un momento successivo, Miceli contribuì a rivelare la presenza delle microspie a casa del capomafia, che così potè neutralizzare le indagini sulla riorganizzazione della cosca di Brancaccio e sul suo intenso rapporto con la politica. È lo stesso episodio che ha fatto finire in carcere Cuffaro, coinvolto nel processo «Talpe alla Dda». Secondo la Cassazione in tutta questa storia «è emersa una complessa ed articolata trattativa, relativa alle persone da candidare alle elezioni nazionali e regionali, sfociata nella accettazione di buon grado da parte dell'esponente mafioso della candidatura dello stesso Miceli, anche per non compromettere i rapporti con esponenti di vertice del partito (Cuffaro)». E ancora, la Cassazione ricorda che era stato raggiunto «un accordo, nella piena consapevolezza da parte del Miceli della caratura mafiosa del suo interlocutore, in virtù del quale il Guttadauro era riuscito a usufruire di un rapporto diretto con Salvatore Cuffaro, per rappresentargli le proprie richieste, formulate anche nell'interesse dei suoi amici, ossia di soggetti associati». Miceli svolgeva anche il ruolo di «interlocutore segreto, nell'interesse di Guttadauro, nei rapporti con il Cuffaro». (AGI)
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