Settembre 20, 2024

di Orazio Vecchio
 Quando si è visto restituire seimila euro dagli stessi individui che con le minacce, negli anni, gliene avevano estorte molte altre migliaia, la vittima taglieggiata, più che rallegrarsi, si sarà insospettita. Se non altro, perché quando un imprenditore denuncia il racket del pizzo, la mafia reagisce. In quel caso, il clan Cintorino rispose con astuzia: cercava, attraverso la restituzione di quella somma, uno sconto di pena in caso di condanna. Salvo poi chiedere ancora una volta indietro quei seimila euro. Con gli interessi.
Succede anche questo in provincia di Catania. Succede poi che il capo storico del clan, Antonino Cintorino, detenuto a Spoleto in regime del 41bis, riesca ugualmente a impartire ordini ai suoi “carusi”. E succede anche che i mafiosi reinvestano gli utili in attività economiche come un frequentato agriturismo sull’Etna. Ciò, almeno, è quanto emerso dall’inchiesta della Procura della Repubblica di Catania, che ha portato a 32 ordinanze di arresto. I provvedimenti, a firma del procuratore Vincenzo D’Agata e dei sostituti Giovannella Scaminaci e Pasquale Pacifico, che hanno coordinato le indagini, danno seguito a una complessa attività investigativa condotta dalla Guardia di Finanza e dai Carabinieri nei confronti del clan mafioso Cintorino, operante nella fascia jonico-etnea, da Catania fino a Giardini Naxos, e storico alleato del clan “cittadino” Cappello.
Il capo è Antonino Cintorino, che a dispetto del carcere duro – scrivono i magistrati – «non soltanto riusciva a mantenere i contatti con i propri affiliati, ma usufruiva altresì di consistenti introiti economici, fornitigli dagli associati in libertà». Per questo il Gip ha concesso un ulteriore provvedimento restrittivo chiesto dai Pm. Nel 2007 il gruppo riuscì persino a infiltrarsi nelle elezioni amministrative di Calatabiano, appoggiando un candidato a sindaco che però non fu eletto.
Fiorente l’attività del sodalizio, dedito soprattutto al racket delle estorsioni e allo spaccio di stupefacenti. Tra i 12 episodi di taglieggiamento che gli inquirenti hanno portato alla luce, quello di cui è stato vittima un esercente della zona jonica, che stanco di subire si è rivolto alle forze dell’ordine denunciando i suoi aguzzini e portandoli davanti al giudice. È stato in questa fase, nel corso del processo, che il clan, per ottenere l’attenuante prevista dalla legge in caso di risarcimento del danno, ha restituito alla vittima circa seimila euro precedentemente estorti e diventati elementi del procedimento. Una mossa finalizzata solo all’alleggerimento della pena, visto che per altre vie i “carusi” non hanno tardato a ripresentarsi all’imprenditore intimandogli di ridare loro quei seimila euro, integrati da ulteriori somme. Giusto per non illudere che potessero piegarsi alla forza della giustizia.
Ma gli introiti non derivavano solo dal pizzo, bensì anche dal traffico intercontinentale di droga, che arrivava dalla Colombia attraverso la Spagna, dove sono stati arrestati corrieri che trasportavano 15 chili di cocaina. Iniziative che fruttavano bene, dato che i magistrati hanno sequestrato 26 immobili tra terreni e fabbricati; 40 mezzi tra autocarri, autovetture e motoveicoli; 19 imprese tra società e ditte individuali (tra queste, l’azienda agrituristica e vinicola Liperus, tra Piedimonte Etneo e Linguaglossa, località turistiche del versante nord dell’Etna). A gestire parecchie attività era Francesca Porto, figlia di Carmelo ritenuto elemento di spicco della cosca, la quale portava dal carcere i messaggi del padre detenuto e faceva anche da esattore e collettore delle estorsioni. A lei gli stessi inquirenti hanno attribuito «grande capacità gestionale e organizzativa». La stessa che la donna ha messo in pratica nel rendersi latitante.
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