Nino Amadore
Da una parte mafiosi di antico lignaggio, dall’altra imprenditori palermitani accomunati ai primi da un patto finalizzato al riciclaggio del denaro mafioso. Denaro mafioso dei sanguinari corleonesi prima e dei Lo Piccolo poi: ai boss facevano riferimnento mentre partecipavano ai conviviali nei salotti buoni della città. È il quadro che emerge dall’operazione mafia e appalti con 19 ordini di custodia cautelare per boss e imprenditori che portano la firma del gip Maria Pino. Indagini coordinate dal procuratore Roberto Scarpinato che fin qui ha diretto il dipartimento mafia e economia della Direzione distrettuale antimafia e nei prossimi giorni assumerà l’incarico di Pg di Caltanissetta. Gli uomini della polizia hanno ricostruito un quadro in cui un gruppo di imprenditori palermitani almeno negli ultimi sei anni, attraverso l’intestazione fittizia dei beni, ha garantito ai mafiosi di continuare a fare affari. Patrimoni mafiosi colpiti ieri con il provvedimento di sequestro per svariate centinaia di milioni. L’indagine ha permesso di ricostruire attraverso le intercettazioni telefoniche, la decrittazione dei pizzini sequestrati a Salvatore Lo Piccolo e alle verifiche tradizionali il giro d’affari di imprese che avevano interessi soprattutto nell’edilizia, comparto controllato completamente dalla mafia:dall’acquisto dei terreni agli appalti pubblici e privati, allo smaltimento dei rifiuti, alle forniture, agli impianti. Secondo gli inquirenti i vertici di Cosa nostra arrivavano a imporre ad accreditati studi professionali di consegnare l’elenco dei lavori più importanti in corso di progettazione in modo da selezionare quelli da riservare all’organizzazione. Gli investigatori hanno verificato l’interesse «programmatico», come ha detto il procuratore di Palermo Francesco Messineo, per i lavori del termovalorizzatore di Bellolampo: una delle aziende che si era aggiudicata l’appalto avrebbe assicurato futuri lavori alle imprese della mafia. Tra gli imprenditori palermitani ritenuti prestanome dei mafiosi c’era Vincenzo Rizzacasa, titolare dell’Aedilia Venusta, impresa del settore costruzioni che ha partecipato a numerosi lavori privati in città commissionati da gruppi di primo piano e che proprio per contiguità con la mafia è stata espulsa l’anno scorso da Confindustria Palermo per incompatibilità con il codice etico e che ne ribadisce la radiazione nonostante i tentativi di Rizzacasa di farsi riammettere per via giudiziaria: il vero titolare dell’impresa sarebbe stato Salvatore Sbeglia che figurava già tra i dirigenti. Tra gli imprenditori arrestati c’è anche Francesco Lena, ingegnere e proprietario dell’Abazia Sant’Anastasia, l’uomo che,sostengono gli investigatori, sarebbe riuscito a non restituire un miliardo di lire al boss Nino Madonia e con quei soldi avrebbe acquistato il feudo di Castelbuono dove sorge l’Abazia. Un imprenditore abile che avrebbe riciclato il denaro di Lo Piccolo, il quale attraverso il ” feudo” avrebbe fatto un favore a Bernardo Provenzano per ingraziarselo contro Nino Rotolo e Antonino Cinà. Duro il giudizio di Scarpinato: «Quest’inchiesta fotografa il livello superiore della mafia dell’attack. Nella Palermo del 2010 le figure di vertice della mafia riescono a controllare tutto il ciclo degli appalti. Questo avviene attraverso anche imprenditori già condannati per mafia e nonostante le misure di prevenzione che hanno continuato a operare nascondendosi dietro prestanomi e all’autorità giudiziaria ma non alla città: chi trattava con loro era perfettamente cosciente del calibro delle persone con cui aveva a che fare tanto che bypassava i prestanomi». «È arrivato il momento –ha detto il presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello – di affrontare la grande questione del rapporto tra mafia, politica ed economia per scardinare le illecite connessioni che rafforzano l’economia illegale, distorcono la concorrenza, comprimono il funzionamento del mercato, limitano la libertà d’impresa e finiscono con l’accrescere il radicamento della mafia nella società».
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