di Mario Meliadò
Il Caffé di Meliadò
Ieri sera, quando ho visto il titolo di “prima” scelto da Antonio Padellaro per l’edizione odierna del “Fatto Quotidiano”, mi sono sentito contento e depresso in una botta sola.
Contento, perché finalmente su 20 regioni d’Italia la Calabria acquisiva non diciamo un ventesimo (magari!), ma almeno un centocinquantesimo di spazio rispetto agli eventi che concernono il suo territorio e la sua gente. Depresso, anzi iper-depresso, perché invece di parlare del porto di Gioia Tauro (e sì che è il più importante del Mediterraneo, in fatto di transhipment) o delle questioni sociali ‘quotidiane’ (basti pensare agli enormi tagli nella scuola: un autentico dramma calabrese, all’interno del più noto e ampio dramma nazionale) lo spazio, la visibilità erano – purtroppo – ‘doverosamente’ riservati alle storie di 8 colleghi giornalisti minacciati dalla ‘ndrangheta, come usa qui da noi…, soprattutto per aver osato esplorare la strada delle connessioni mafia-politica.
Tra l’altro, si tratta d’intimidazioni ben sviscerate dall’osservatorio Ossigeno di Alberto Spampinato e da quello che è forse il primo volume (“Avamposti”) a trattare specificamente di giornalisti minacciati in un così circoscritto lembo d’Italia (e, devo dire, curiosamente a quest’ultima circostanza non si fa cenno nell’ampio paginone firmato da Enrico Fierro e Giampiero Calapà).
Detto questo, due cose.
La prima, è che malgrado si tratti per certi versi di quella Calabria “negativa” che sembra anche essere l’unica che i media nazionali sono in grado di raccontare (controprova? Provate a ricordare l’ultima volta che la Calabria ha avuto le prime pagine dei quotidiani nazionali… fatto? Ecco, è stato per il bazooka al procuratore capo di Reggio. E la volta prima…? Per la bomba fatta esplodere sotto l’abitazione del procuratore generale presso la Corte d’appello di Reggio. E la volta ancora prima…? A gennaio, per i “fatti di Rosarno”), va registrato che le altre testate nazionali non hanno avuto la medesima sensibilità. O forse non hanno colto l’assoluta peculiarità di cosa vuol dire esattamente fare il giornalista in Calabria (malgrado, ripeto, un intero libro tra l’altro molto recente si soffermi esclusivamente su questo). Dunque, il “Fatto quotidiano” a mio avviso va ringraziato, nella speranza che – al di là delle peculiarità di questa testata – in futuro trovi il destro e l’acume per trattare di cose calabresi anche quando non ci sono morti ammazzati, minacce delle cosche et similia.
La seconda. Più volte, nel corsivo di Fierro come nel paginone all’interno, ricorre un interrogativo (dei cronisti di Fq, dei colleghi miei conterranei, dei loro parenti): “Ma ne vale la pena?”.
Sgombriamo il campo: anche secondo noi, ne vale sicuramente la pena. Però, quando leggo su Fb che uno di questi colleghi (il bovalinese Ferdinando Piccolo) s’è dovuto veder minacciare di morte a fronte di un organo di stampa che lo retribuisce pochi centesimi a riga…
No, non è una novità assoluta, questo tema. Si sa che l’editoria (non solo in Calabria, in verità) è un settore ormai difficilissimo; in più, c’è la crisi (per gli imprenditori di settore; in edicola; tra gli inserzionisti pubblicitari che sono un altro fondamentale motore di sussistenza per qualsiasi testata giornalistica).
Però, tra una riflessione su una tanica di benzina e una meditazione su un invito a “lasciar perdere”, trovo sia assolutamente arrivato il momento di riflettere in termini più ampi sul ruolo del giornalista sul territorio calabrese, nel senso dell’adeguatezza nello svolgimento della sua funzione sociale come pure del riconoscimento di questa da parte del consesso sociale; le impervie condizioni economico-contrattuali; il frequente sfruttamento (molto giustamente, si è denunciato al mondo lo sfruttamento di chi deve raccogliere le arance per ore e ore, magari per 15 euro al giorno; ma se un giornalista viene pagato qualche centesimo a riga, 15 euro non li vedrà neppure in una settimana, e non si tratta di nequizie particolari ma di banali calcoli algebrici); le difficilissime condizioni ambientali, anche oltre quelle turpemente ‘dettate’ dal crimine organizzato (se querelano il giornalista di un giornale milanese, romano o torinese probabilmente la testata gli sarà vicina moralmente, ma anche materialmente. In Calabria è così o no?).
Ecco, io… io spero in prime pagine che, presto, raccontino una Calabria evoluta anche socialmente, economicamente, in termini di maturità e consapevolezza di una società civile che non può considerarsi tale solo a giorni alterni: è una risorsa e, come tale, 365 giorni ha anche precisissimi doveri. E la libertà di stampa ha dei costi: di libertà personale e di serenità, certo, ma anche economici.
Nelle due pagine di oggi, un risvolto che offende particolarmente è il gesto del boss di turno nei confronti di Antonio Sisca, nell’agitargli davanti una somma di denaro in cambio del suo ipotetico silenzio: perché non rimanda solo alla tracotanza dei clan, ma a un profondissimo non-detto di tutti quanti sanno che significa scendere ogni giorno in trincea per pochi spiccioli, la penna (possibilmente, una biro mezza scassata) al posto dell’elmetto.
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