di Nino Amadore
A settembre parecchi professionisti, soprattutto dell’area tecnica, sono andati a votare per il rinnovo dei vertici dei rispettivi ordini professionali. E in alcuni casi è stata una battaglia elettorale agguerrita. In Sicilia, dove ti aspetteresti una grande attenzione ai temi della legalità e della lotta alla mafia, la questione dei rapporti tra professionisti e criminalità organizzata è rimasta spesso vincolata a chiacchiere di alcuni circoli ed è entrata tra i punti qualificanti di alcune liste solo in alcuni casi. Alcuni professionisti hanno ritenuto di tacere sul tema anche quando la stampa ha verificato un certo disinteresse nei confronti del tema mafia. Ciò è avvenuto in particolar modo a Palermo: l’Ordine degli ingegneri si è diviso dopo che il consiglio ha deciso di radiare l’ingegnere Michele Aiello, il proprietrario della clinica Santa Teresa di Bagheria ritenuto prestanome di Bernardo Provenzano e al centro di un affare politico-mafioso che ha coinvolto (e travolto) l’allora presidente della Regione siciliana Salvatore Cuffaro (medico radiologo). Un provvedimento simbolo, quello dell’Ordine degli ingegneri, anche perché ha fatto emergere per differenza il mancato provvedimento di un altro Ordine, quello dei medici, nei confronti di soggetti condannati nello stesso procedimento in cui è stato condannato Aiello: uno di questi è appunto Salvatore Cuffaro.
Un ingegnere, un attempato ingegnere palermitano, ha per esempio rivendicato, in un colloquio privato, il proprio impegno antimafia e persino le scelte fatte in passato a proposito di colleghi condannati per collusione con Cosa nostraa. L’attempato ingegnere ha ribadito comunque che “certe cose non hanno bisogno di clamore, si fanno in famiglia e in silenzio” che poi è lo stesso discorso che l’allora presidente degli industriali palermitani fece a Libero Grassi, determinato a denunciare poubblicamente gli estorsori e per questo poi ucciso. E’ questa la logica su cui si fonda un modo di pensare che, purtroppo, continua ad avere salde radici a Palermo e in generale in Sicilia. Non è certo il caso di generalizzare, di criminalizzare intere categorie, ma il silenzio con cui vengono affrontate certe vicende induce a pensare che faccia comodo a parecchi non parlare di mafia e di affari mafiosi. Perché nel dibattito tutto politico sul rinnovo dei vertici dei rispettivi Ordini professionali era possibile mettere al primo punto l’impegno per la legalità e contro la mafia: potevano farlo tutti, certificando una rottura con il passato. Ma non è stato fatto, tranne in alcuni casi. Agli appelli, anche pubblici, di associazioni e individui non è corrisposta alcuna reazione. Si prenda, per esempio, l’idea lanciata ormai un paio di anni fa da Elio Caprì, presidente dell’Associazione liberi architettiu e ingegneri di Palermo, di sottoscrivere una Carta di Palermo contro la mafia che accomunasse tutti i professionisti siciliani. Ecco, quella proposta è stata fatta morire. Così come rischia di morire la meritevole iniziativa fatta da un gruppo di architetti dell’Ordine di Palermo: il convegno su etica e legalità nella professione. Mentre gli imprenditori cercano di dimostrare che dire no alla mafia è possibile, si assiste alla normalizzazione delle coscienze della borghesia siciliana che reagisce quasi con insufficienza se non addirittura con fastidio a questo tipo di discorsi. Chi indaga sa che il vero problema di Cosa nostra oggi è quello di continuare a fare affari massimizzando il più possibile le risorse del territorio cioè soprattutto i fondi pubblici: la cosiddetta zona grigia, è stato detto ancora recentemente, è sempre pronta ad aiutare le cosche. Per fare affari con i fondi pubblici infatti ogni criminale ha bisogno di buoni appoggi, di interlocutori che possano mandare avanti le carte e di soggetti preparati che con gli interlocutori nelle amministrazioni possano tenere i rapporti: esistono addirittura consulenti che lavorano per le famiglie mafiose, è stata la denuncia di qualche giorno fa del presidente della commissione parlamentare Antimafia Beppe Pisanu.
Potrebbero sembrare fantasie ma i segnali che arrivano dai territori sono davvero inquietanti: l’assalto alla diligenza di chi vorrebbe continuare a utlizzare la sponda mafiosa o paramafiosa a volte è davverso asfissiante. Addirittura professionisti condannati in primo grado per aver avuto rapporti con boss mafiosi cercano di accreditare una loro presunta innocenza o buona fede. Che non c’è. E intanto accadono altri fatti inquietanti che coinvolgono i presidi di legalità nei Comuni, gli uffici tecnici. Quegli stessi uffici in passato presidiati da professionisti mai condannati ma generalmente riconosciuti quali sponde certe per le famiglie mafiose.
In provincia di Palermo, siamo ancora a Bagheria, un tecnico capace e coraggioso, l’urbanista Marina Marino, ha assistito a una prima vittoria della famiglia Lo Iacono, il cui capostipite Pietro è per la prefettura di provata vicinanza a Cosa nostra: i Lo Iacono, in assenza di una delibera del Consiglio comunale che cambiasse la destinazione d’uso dell’ex palazzo delle Poste che si trova nel centro del paese, hanno ottenuto che un tecnico-commissario nominato dal direttore generale dell’assessorato regionale al Territorio e ambiente approvasse il tutto dando loro ragione e hanno ottenuto per decisioone commissariale la licenza edilizia. Il sindaco di Bagheria Biagio Sciortino ha inviato a luglio una lunga lettera al prefetto di Palermo Giancarlo Trevisone e ai magistrati dell’Antimafia elencando i tanti motivio di disappunto. Una vicenda che al momento della pubblicazione di questo articolo può aver preso qualsiasi strada: ma l’iter che ha seguito la pratica fino a un certo punto resta confermato. La decisione del commissario regionale, che ovviamente nessuno ritiene siua stata presa in malafede, avvantaggia di fatto i Lo Iacono e questo è indiscutibile. Ha detto recentemente il presidente dei senatori del Partito democratico Anna Finocchiaro che è nei Comuni, al catasto, negli uffici che bisogna andare a vedere. Questa storia di Bagheria è l’esempio. Ci sono uffici siano capaci di non porre ostacoli quando a spingere le carte sono imprenditori mafiosi. Questa comunque è l’aria fetida che circola nel palermitano, dove in altri luoghi altri professionisti vivono assediati dall’abulismo e dall’ostilità di altri tecnici che approfittano della pavidità della politica per imporre le loro leggi. Si potrebbe continuare a lungo con esempi, nomi e inchieste varie: la non rilevanza penale e dunque l’assenza di atti giudiziari non corrispondono a una assenza di responsabilità soggettiva.
A proposito di assenza di rilevanza penale, per esempio, è portato spesso ad esempio il caso dell’architetto Vincenzo Rizzacasa, amministratore dell’impresa edile palermitana Aedilia Venusta che ha tra i suoi dipendenti Francesco e Salvatore Sbeglia, ambedue condannati per reati di mafia. L’impresa Aedilia Venusta è stata espulsa quest’estate prima dall’associazione Addiopizzo e poi da Confindustria Palermo che fin qui non aveva ancora adottato alcun provvedimento in applicazione del codice etico approvato il 2 settembre del 2007 a Caltanissetta dalla Confindustria Sicilia guidata da Ivan Lo Bello. Ma è questo soprattutto un caso che ha fatto esplodere le contraddizioni di una città fin troppo abituata al detto “calati iuncu chi passa a china” e dunque pronta a scommetere che anche questa ondata di passione per la legalità, che questo ciclo di lotta alla mafia sarebbe passato come tutti gli altri.
Per rimanere agli ambiti delle professioni tecniche, ma cambiando provincia, possiamo vedere come un certo sforzo sia stato fatto e continui a essere fatto in aree dove il tema delle collusioni, del rapporto organico tra professionisti e mafia è più forte come in provincia di Trapani. Un’area in cui è più diffusa, secondo quello che risulta anche da indagini giudiziarie recenti, la presenza di tecnici e responsabili di uffici tecnici dei comuni in affari di mafia che riguardano non più solo l’edilizia ma anche settori evoluti come l’energia eolica. Ecco perché ha un valore eccezionale la manifestazione organizzata dall’Ordine degli architetti di Trapani, animato da Vito Corte che ne è stato presidente, e dedicata a Mauro Rostagno, architetto e giornalista ammazzato dalla mafia in un’aura di mistero che contiene tutti i silenzi e le contraddizioni di questa terra. Così come ha un valore eccezionale, da un punto di vista simbolico e di comunicazione la proposta di creare un parco della legalità attorno all’area della Calcestruzzi ericina, azienda tolta alle famiglie mafiose grazie all’opera instancabile del prefetto Sodano e all’impegno di Libera e oggi restituita alla legalità e ai lavoratori. Se è vero che la mafia parla anche con i silenzi, gli architetti trapanesi hanno voluto comunicare con i fatti da che parte stanno. Certo la stessa cosa non si può dire avvenga in altre aree della Sicilia dove i tecnici preferiscono risolvere alla chetichella gli affari scomodi che riguardano la mafia.
Potrebbero bastare questi pochi accenni a farci riflettere su una battaglia che appare sempre più complessa e che può riservare non poche sorprese. Una battaglia in cui il nostro amico può rivelarsi a un tratto il peggiore dei nostri nemici: perché ha ceduto o forse perché non è riuscito a liberarsi del putridume mafioso, di quel peso che si porta dentro per aver ceduto in passato. Quello che non si può accettare è molti, tanti, troppi professionisti facciano finta di nulla o addirittura ritengano sia normale collaborare con uomini condannati per concorso esterno in associazione mafiosa o peggio per favoreggoiamentro aggravato o ancora peggio per associazione mafiosa. E sorprende non trovare traccia pubblica, a garanzia certo dell’Ordine stesso, di provvedimenti nei confronti di tanti medici coinvolti nmelle inchieste sulla criminalità organizzata in Sicilia: inchieste che hanno fatto clamore, condanne come quella dell’ex presidente della Regione che hanno provocato un provvedimento di sospensione da parte del presidente del consiglio dei ministri ma non dell’Ordine professionale. Come lui non sono stati sospesi dall’Ordine professionale altri medici condannati, anche se assicurano i vertici dell’Ordine che esistono procedure aperte, mentre è stato preso un provvedimento nei confronti di quel medico che invece ha collaborato con la giustizia pur rifiutando di diventare ufficialmente e a tutti gli effetti collaboratore di giustizia. La condanna a dieci anni e otto mesi di un altro medico radiologo ed ex deputato di Forza Italia come Giovanni Mercadante proprio per i suoi non superficiali rapporti con Cosa nostra (l’accusa cui i giudici di palermo hanno creduto era di associazine mafiosa) imprrebbe una seria riflessione alla categoria che non ha, se non nelle sue frange sindacali e in particolare delal Cgil, fin qui fatto nulla per capire il perché di una così strutturata prersenza di medici in inchieste di mafia. Il videpresidente dell’Ordine dei medici di Palermo Giovanni Merlino spiega piuttosto che “numerosi provvedimenti sono stati presi a partire da Cinà (capomafia acclarato con numerose condanne sulle spalle ndr) e per finire a Salvatore Aragona (anche lui condannato)”. Ma proprio qui sta il paradosso: mentre si conosce un proivvedimento disciplinare nei confronti di Aragona (che ha collaborato con la giustizia) non si conosce alcun provvedimento nei confronti di altri suoi colleghi (come Cuffaro) che lui ha contribuito a far condannare. Si scopre ancora che Salvatore Cuffaro e Domenico Miceli, altro medico ex assessore al comune di Palermo, sono iscritti all’Ordine dei medici di Agrigento che dunque ne è competente sul piano disciplinare. Miceli, già condannato per mafia, continua aessere dipendente del Policlinico universitario di Palermo così come continua a essere dipendente del policlinico il radiologo Aldo Carcione (cugino e socio dell’ex ingegnere Michele Aiello), anch’egli condannato insieme a Totò Cuffaro nel processo Talpe. Il presidente dell’Ordine di Agrigento Giuseppe Augello ammette che è stata aperta una procedura nei confronti dei due medici e spiega che non è possibile fare altro in mancanza di una sentenza definitiva. Così resta il paradosso di un propfessionista sospeso dalla carica politica perché condannato per mafia e ancora iscritto all’Ordine professionale.
Sta di fatto che il medico in Sicilia come in alrtre regioni del Sud è stato una formidabile macchina di aggregazione del consenso e dunque perno di potere e più che prossimo al collateralismo con Cosa nostra. Se ciò è avvenuto in maniera chiara a Palermo dove i processi hanno dimostrato cosa è stato non si può escludere che possa essere avvenuto anche in altre aree della Sicilia nonostante l’assenza di processi o di arresti eclatanti. E’ infatti vero, come ha più volte spiegato il capo della Procura nazionale antimafia Piero Grasso, che certi rapporti a volte restano ai margini del penale e non assumendo rilievo penale sembrano non avere quell’importanza che noi gli attribuiamo. Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, proprio per la sua difficile provabilità, non sempre riesce a essere attribuito ai soggetti maggiormente esposti a questo tipo di attività, cioè i colletti bianchi. Secondo una ricerca, purtroppo non più recente ma rimasta l’unica, dai dati sui procedimenti per concorso esterno in associazione mafiosa tra il 1991 e il 2007 elaborati dalla Direzione nazionale antimafia su 7.100 indagati ben 6.275 (l’88,3% del totale) sono in Calabria, Sicilia, Campania, Puglia, Basilicata e Campania.
A scorrere questi dati il Nord sarebbe un’isola felice dove la zona grigia, area in cui spesso si collocano i soggetti accusati di concorso esterno sulla base degli articoli 110 e 416 bis del codice penale, sarebbe assente: sono solo 825 infatti gli indagati per concorso esterno. E se consideriamo che nel periodo 1996-settembre 2007 solo 452 procedimenti sono stati definiti (ma non si sa se con sentenza di condanna o meno) la presenza delle mafie al Nord, almeno a leggere i dati della Direzione nazionale antimafia, diventa sempre meno dimostrabile.
Detto ciò sembra chiaro che l’intervento degli ordini professionali nei confronti dei loro iscritti è stato fin qui molto debole. Parecchi ordini hanno rinnovato i rispettivi codici deontologici ma gli interventi sono stati limitati ai problemi tariffari. Tranne qualche eccezione: il presidente dell’Ordine degli avvocati di Palermo Enrico Sanseverino racconta del dibattito che si è tenuto nel suo ambito proprio per ottenere una riforma più severa delle regole professionali: c’era e c’è chi si oppone con fermezza. Esponenti delle categorie di Campania e Calabria, per esempio, risulta non siano stati emntusiasti. L’Ordine di Palermo è stato sicuramente tra i più efficaci e continua a essere molto attento. La stessa cosa non avviene in altre parti della Sicilia e d’Italia. Stesso discorso può essere fatto anche per altri Ordini professionali, come quello dei commercialisti ed esperti contabili. E’ necessario uno scossone alle coscienze o un nuovo metodo, che non abbia il sapore di un libro nero giustizialista e forcaiolo, evidenziare almeno i comportamenti positivi sul piano etico: professionisti che abbiano indicato la scelta precisa, per esempio, di difendere i mafiosi (la difvesa è un diritto fondamentale che nessuno mette in discussione) ma di non incassare soldi provenienti dal pizzo (no alla difesa di un criminale con fondi provenienti da un altro crtimine), di commercialisti disposti a denunciare i tentativi di riciclaggio o le operazioni che sembrano banali ma non solo di sovraffatturazione (spesso utilizzate per pagare il racket o far circolare denaro sporco). I notai hanno siglato un accordo con la Direzione nazionale antimafia, gli altri non hanno fatto altrettanto. I ragazzi del movimento Addiopizzo a Palermo si interrogano su cosa bisogna fare per evitare che un avvocato, non condannato ma citato in un pizzino di Provenzano, finisca con il continuare a essere penalista di primo piano a Palermo e in provincia. Resta una considerazione da fare: il tema delal lotta alla mafia non può essere relegato all’ambito del formalismo giuridico che ovviamente segue logiche normative spesso farraginose. Gli Ordini potrebbero darsi delle regole che spingano i propri iscritti a evitare certi comportamenti. E’ giusto dirlo: l’Ordine dei medici, per esempio, ha proceduto con solerzia (e ha fatto bene) quando si è trattato di punire medici che avevano usato violenza contro le pazienti. Non è stato e continua a non essere così severo quando si tratta di mafia. L’ho detto e continuo a ripeterlo: non è di una gravità enorme che un medico sia condannato per favoreggiamento ai mafiosi? Non è assurdo che non sia stato sospeso? Il messaggio che arriva tra la gente è questo: tanto continua a fare quello che vogliono. Deflagrante. Inutile scrivere che ma mafia fa schifo se poi i comportamenti sono altri.
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