di Mario Cribari e Francesco Ferro per Calabria Ora
Eugenio Facciolla ha due espressioni: col sorriso o senza. Il tono di voce, invece, è sempre lo stesso, quasi baritonale. Un bel calabrese insomma. Magistrato di lungo corso, pur se ancora giovanissimo, negli ultimi 15 anni ha istruito le più importanti inchieste giudiziarie, anti-mafia e non, del Cosentino; prima nelle vesti di pm della Dda catanzarese, poi come sostituto della Procura di Paola. Attualmente, ricopre il ruolo di sostituto procuratore della Corte d’appello di Catanzaro. Lo incontriamo proprio a Cosenza, la sua città, in occasione di un convegno sulla legalità a cui parteciperà come relatore. Un’occasione propizia per commentare con lui i recenti scossoni giudi-ziari che hanno interessato la Calabria e che hanno messo in luce profonde connivenze tra criminalità organizzata, politica e istituzioni.
Il comandante provinciale dei ca-rabinieri ha affermato, di recente, che a Cosenza non c’è la mafia, riproponendo un po’ il “teorema Arlacchi” del gangsterismo.
«Io, però, ho dato una lettura diversa delle sue affermazioni. Ferace commentava provocatoriamente l’esiguità delle denunce antiracket in città. Come a dire: se nessuno denuncia, allora vuol dire che la mafia non esiste? Invece, la mafia esiste eccome, anche qui».
Ed è insidiosa come quella reggina?
«Sono bande organizzate che, però, si sono evolute, realizzando un salto di qualità in termini criminali. Certo, a differenza di Reggio, la malavita cosentina è meno legata a forme tradizionali ed è poco propensa a compiere azioni eclatanti, ma ricordiamoci che solo nel 2000 qui si sono contati 24 morti. E che della vicenda s’interessò anche la Commis-sione antimafia di Lumia, mostrando mol-ta sensibilità per ciò che stava accadendo a Cosenza».
Sono lontani, quindi, i tempi in cui, a torto o ragione, la città veniva considerata un’isola felice?
«E’ sempre stato uno stereotipo poco conforme alla verità. E con ciò non voglio dire che Cosenza non sia una realtà civile e al passo con i tempi. Ma le infiltrazioni, le commistioni, ci sono anche qui».
Il vescovo Nunnari ha detto che non è la politica a essere sporca ma sono sporchi alcuni uomini che fanno politica. I sospetti relativi a legami tra politica e criminalità, riguardano anche Cosenza o, salvo eccezioni, vanno circoscritti ad altre realtà calabresi?
«Il vescovo ha centrato il problema. Bisogna capire quali sono gli uomini che fanno politica e perché. C’è chi vede la politica come uno strumento per ottenere vantaggi personali. Ci sono poi degli imprenditori, o meglio ancora “prenditori”, che entrano in politica per tutelare se stessi. Di gente così ce n’è anche a Cosenza. La differenza con Reggio Calabria è che lì sono stati fatti dei grandi passi in avanti in termini investigativi. Altrove, invece, il lavoro è appena all’inizio. Non è un caso se, da trent’anni a questa parte, nelle in-chieste per usura, droga, estorsioni, ricorrono sem-pre gli stessi nomi».
In tutto ciò, le forze dell’ordine lanciano un grido allarme: i cittadini non denunciano.
«A Cosenza il pizzo lo pagano tutti. E questo, purtroppo, non è un mistero».
E gli amministratori pubblici, invece? Quale segnale virtuoso potrebbero dare alla gente?
«Beh, anche tra loro è difficile trovarne qualcuno propenso a denunciare. Io, per-sonalmente in tutta la mia carriera, non ne ricordo neanche uno. La verità è che, alla fin fine, i voti servono a tutti e non si fa caso alla direzione dalla quale provengono. In generale sulle iniziative concrete pre-valgono quelle “di facciata”».
Come le costituzioni di parte civile, ad esempio?
«Ad esempio. In particolare quelle nei processi antimafia, dove alla fine si impone al condannato un risarcimento che lo Stato non vedrà mai poiché, quasi sempre, si tratta di soggetti nullatenenti. La cosa grave, invece, è che nei processi per truffa le costituzioni di parte civile servirebbero davvero e non ci sono mai. Le faccio un esempio definitivo: in questi anni sono stati incardinati numerosi processi per stan-gate milionarie alla 488 e non solo, culmi-nati in condanne di primo grado e assoluzioni in Appello per intervenuta prescrizione. All’assoluzione, poi, coincide la resti-tuzione dei beni posti sotto sequestro che, spesso e volentieri, ammontano a svariati milioni di euro. Un epilogo evitabile. Nei casi di prescrizione, infatti, la presenza delle parti civili avrebbe fatto in modo che quei soldi rimanessero nelle casse dello Stato».
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