di ANGELA BUBBA* –
da ZoomSud
Maria Franco mi scrive: “Penso che bisognerebbe fare un discorso più ampio sulla “violenza” in Calabria: a me pare
che in Calabria più che in altre parti del paese le liti si allargano e si approfondiscono oltre misura… e i puntigli diventano questioni d’onore e la sfiducia totale nelle istituzioni aumenti il tentativo di farsi “giustizia” da sé…”. E io concordo nella misura più assoluta con lei. Con questo non intendiamo dire, né io né tanto meno un’altra calabrese come Maria, che la Calabria sia una terra violenta, abitata da violenti e predisposta alla violenza in maniera genetica quasi, quasi come se si trattasse di una condizione mistica e irreversibile.
Il midollo, marcio, della questione, è il fatto che più di altre regioni la Calabria è lontana dallo stato centrale, da Roma per farla breve, o comunque del senso o sentimento statale. Più della Campania, della Sicilia, della Basilicata, della Puglia. La Calabria non è il Sud. E’ il Sud del Sud. Non è vero che ci sbatte il sole in Calabria, il meridione calabrese non è assolato, non è giallo. Non fa caldo, qui in Calabria. E’ oscura, la Calabria. E’ lontananza, la Calabria. Per motivi sia interni che esterni. E’ vero che i calabresi si barricano e si autoescludono, la maggior parte delle volte, dentro o fuori la propria regione. Ed è consequenzialmente vero che la gente pesa questo atteggiamento prima con incertezza, poi con sospetto, poi ancora con uno strisciante razzismo, poi infine con una totale chiusura.
D’altra parte bisognerebbe anche capire la popolazione calabrese, che subisce da chissà quanti anni mortificazioni e privazioni. Che è costretta a lottare con le solite promesse scadute, i soliti palleggiamenti istituzionali, le solite bave comiziali, i soliti luoghi comuni, leghisti ma non solo, di destra ma non solo. Essere trattati sempre come un’emergenza, come una sottrazione, come una deficienza. Essere compatiti, ogni volta che ci si presenta a qualcuno, ogni volta che il tuo nuovo interlocutore scopre la tua provenienza sentendoti parlare e tu te ne devi vergognare. Come si può sentire una popolazione? Come non si può capire che questa autoesclusione è solo una disperatissima forma di dolore, di paura, di difesa?
Una difesa pazza da un governo pazzo. Che non ascolta questa maledetta e benedetta regione. Che la lascia alla sua oscurità appunto, al suo buio.
La ragione della mafia più potente al mondo, la ragione che necessita di una presenza statale seria e motivata e soprattutto sincera, e che invece è giorno dopo giorno abbandonata. Abbandonata ai suoi problemi, tutti più o meno infettati dalla mafia: immigrazione, sanità, trasporti, politica, ambiente. L’ambiente: la bomba ecologica di Crotone, la questione della Seteco di Marcellinara, e le navi dei veleni, e i rifiuti tossici, e quant’altro. Che altro dovrei aggiungere?
Quasi tutte le scuole pubbliche sono più o meno fatiscenti, quasi tutti i ragazzi della mia età sono disillusi, sono già tristi in partenza. Non vale la pena lottare per loro. Loro è come fossero già morti. Tanto vale adattarsi. Vendersi alla malavita o lavorare a nero. Dichiarare nessun tipo di reddito per fregare lo Stato alla fine. Uno Stato che non vuole farsi sentire, che non ci aiuta. Uno Stato viziato già nei sistemi che adotta per intervenire sul territorio. Che in tv fa molto pomposamente mostra del suo ingegno e della sua abilità, su come ha risolto questa e quella questione, questa e quell’altra strage. Esercito, militari, forza. Paura. Ecco come la risolve. Sempre dopo però. Dopo che il primo sangue qualcuno l’ha già versato. Dopo che per anni ha agito la più scandalosa cecità. E alla fine sembriamo scoprire il fenomeno.
Alla fine la Calabria viene sbattuta nei Tg nazionali come il mostro di turno. Ora tocca a noi fare i mostri. E’ il nostro momento. Gli italiani un giorno si sono svegliati e hanno capito, dopo anni, dopo decenni, che questa penisola possiede una regione chiamata Calabria, e una popolazione attinente che risponde al titolo di calabresi.
La maggior parte onesti, la maggior parte in grado di far capire la violenza che ogni giorno siamo costretti a subire. Farla capire allo Stato soprattutto, al governo. Che la nostra non è violenza per violenza, non ci appartiene, non ci è connaturata. Le estremizzazioni portate alla ribalta (l’ultima quella di Filandari) sono stratificazioni, sono massacri intenzionali e cerebrali promossi in primo luogo da una cultura statale che non c’è stata mai davvero vicina, che ha lasciato che i nostri posti dimenticati, anziché essere recuperati, venissero sempre più sbattuti nel pantano dell’indifferenza e della disillusione. Uno Stato che mira a rendere questo terzo mondo italiano sempre più legale e accettato, che mentre sponsorizza reati da debellare (soprattutto al Sud) è il primo che li commette, che pensa a costruire quel diavolo di ponte sullo stretto e non si rende conto del macello che è la Salero-Reggio Calabria, l’autostrada dei viaggi della speranza, come la chiama ogni calabrese che è costretto a percorrerla, ogni calabrese che si sente più africano che non italiano.
La Calabria, lo ripeto ancora una volta, non è semplicemente Sud. E’ il Sud del Sud. Sta più in basso della Sicilia, la Calabria. La Sicilia ha i suoi miti positivi, come la Campania del resto. La Calabria ce li ha ugualmente ma non riesce a parlarne, è ammutolita, è spaventata.
La Calabria ha una luce diversa, in Calabria la luce è prodotta da ultravioletti rovesciati, da aberrazioni, da una luce che deve stare lontana quasi per proteggersi, che non vuole farsi vedere perché ha paura. E’ difficile non avere paura in Calabria, è difficile vivere serenamente in Calabria. Anche se non hai nessun parente ammazzato, anche se non sei parente a nessuno dei boss. E’ difficile, è surreale vivere in queste condizioni. In uno Stato che non ti ascolta. Con giornalisti imbottiti di minacce se fanno il proprio dovere, con la polizia che non si vede nemmeno garantita la benzina dentro le macchine.
Poi ci meravigliamo, poi gli italiani si meravigliano perché accade quello che accade. Agli italiani vorrei dire che viene mostrata solo una piccola parte di questa macelleria, di questo strazio. Quello più silenzioso e vero le tv non lo trasmettono, le tv, i giornali, l’informazione italiana viaggia troppo veloce per capire che la Calabria non può essere sbatacchiata dentro due tre servizi di qualche minuto e stoppata lì. Dopo anni di mutismo, di dimenticatoio. Non la capirete mai questa regione, non ci capirete mai così.
Ritornando a quanto mi aveva scritto Maria Franco: è vero, qui, in questa nostra regione, il senso della soggezione, come della rassegnazione, della violenza, della difesa, come dell’offesa, appaiono certamente centuplicati. Credo che sia il rimando dello specchio però, credo che sia la risposta violenta per un terra violentata. Che così reagisce perché ha alle spalle i medesimi presupposti e le medesime arroganze.
Ciò non vuole dire che cose migliori non debbano attecchire, che una diversità positiva non debba riguardarci, anzi… Ci riguarda già. Dobbiamo solo sforzarci di prenderne atto, di ribadirne l’esistenza e di parteciparvi.
*Angela Bubba, nata a Mesoraca (Crotone) nel 1989, ha pubblicato il suo primo libro “La casa”, edito da Elliot, nel 2009. Si è recentemente laureata alla Sapienza con una tesi su Elsa Morante.
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