di Massimo Brugnone*
Gentile Ministro della Repubblica Italiana, Umberto Bossi, è l’orgoglio quello che mi porta a scriverle. Sono figlio di padre siciliano e madre pugliese, nelle mie vene scorre il sangue di anni ed anni di storia, quella storia che non si può cancellare e non si deve travisare. Sono figlio dei cattolici e dei musulmani, degli arabi, dei normanni, dei greci, dei bizantini, anche se sono nato a Busto Arsizio, in provincia di Varese.
Io, rappresentante della prima generazione di meridionali del nord, amo la mia città tanto quanto amo le mie origini e non posso accettare che proprio qui, a Busto Arsizio, lei abbia potuto infangare l’onore della mia e di tante famiglie che con fatica e sudore hanno cercato di costruire la propria vita qui, lontani dai propri padri, dalle proprie madri, dai fratelli e dagli amici più stretti di una gioventù che li ha visti costretti ad abbandonare la propria terra. Vorrei innanzi tutto rammentarle un particolare storico che, alla vigilia dei festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità d’Italia, alcuni in modo palese tentano di sovvertire nella propria autenticità: dal punto di vista delle finanze pubbliche, il Regno delle Due Sicilie non solo era una delle tre più importanti economie europee dell’epoca, ma – soprattutto – non arrivò mai al deficit del Regno di Sardegna (ovvero dei Savoia). Questo perché la pressione fiscale in quel Sud che oggi è il Mezzogiorno d’Italia, nell’epoca pre-unitaria era la più bassa d’Europa, mentre i conti pubblici piemontesi venivano inficiati dalla politica espansionistica perpetrata in quegli anni da Cavour. E’ molto probabile che, come dice lei, Senatùr, furono gli stessi imprenditori del nord a “finanziare Garibaldi per prendere il sud”, ma il particolare che sfugge è che probabilmente questa fu una mossa atta a depredarne le ricchezze ed annetterle alle deficitarie casse piemontesi per colmarne, come avvenne, ogni passività. Non possiamo dimenticare, infatti, che con l’Unità d’Italia si impose un significativo inasprimento delle imposte alle regioni del Sud le quali, attraverso un carico fiscale più alto rispetto al resto dell’Italia, dovettero di fatto accollarsi i debiti accumulati dall’ex Regno di Sardegna. E furono anche queste le stesse cause che portarono con ogni probabilità alla nascita del fenomeno del brigantaggio, fino a farlo sfociare nella forma più crudele ed organizzata di criminalità che oggi chiamiamo “mafia”. Questa è la verità, signor Bossi: sono pagine che finalmente oggi possono essere riscritte anche nei libri di Storia. Ma capisco che evidentemente lei in questo campo o starà prendendo lezioni da suo figlio Renzo, o risulta essere purtroppo in mala fede. Negli anni in cui si cerca di creare un’Europa unita e libera da qualsiasi forma di discriminazione, lei, caro Bossi, viene nella mia città a raccontare una storia che non è mai esistita. Ad offendere un Sud Italia che invero cercate perfino di imitare. Ho sorriso quando sentii la proposta di insegnare il dialetto nelle scuole del Nord, nel vedere l’imposizione di una tradizione che questa parte d’Italia non coltiva e che invece viene con amore tramandata nelle terre del Sud. Terre che – statistiche alla mano – sfornano i migliori cervelli del nostro Paese: giovani che si impegnano, studiano, faticano e sudano per poter conquistare un riconoscimento culturale che si trova anche costretto a superare i pregiudizi radicati in una mentalità chiusa ed ignorante. Ed uso senza disprezzo tale sostantivo per esprimere semplicemente il concetto che l’ignoranza altro non è se la non conoscenza di qualcosa. A tal proposito, sarò felice se un giorno mio padre decidesse di soprannominarmi squalo, piuttosto che essere pubblicamente destituito alla dignità di una trota. Al contrario del povero Renzo, però, io periodicamente mi spingo al di sotto della nostra bellissima Capitale, ed è nelle terre che furono dei miei nonni ed in quelle vicine, come la Calabria, che ho trovato ragazzi animati dal fervore di un’appartenenza ad una realtà troppo spesso bistrattata, pronti a voler e dover riscattare il proprio essere: cittadini di un’Italia che non vuole rappresentare sé stessa. Soffrivo da bambino la lontananza dai miei parenti, dalle mie radici. Mi ripetevo che una volta cresciuto avrei invertito la tendenza: se i nostri genitori furono costretti ad andarsene, noi avremmo dimostrato che invece si poteva e si doveva lottare e restare. Oggi, a ventidue anni, il mio pensiero è mutato a causa di diversi fattori, primo fra tutti quel terribile cancro che è la mafia e che divora l’economia e la politica del nostro Paese. Ho capito che nonostante le mie origini, sono nato e cresciuto a Busto Arsizio e farei un errore imperdonabile, adesso, ad abbandonare questa mia terra. E ho deciso di impegnarmi in maniera concreta con diversi miei coetanei già nel 2007, costituendo su spinta di Aldo Pecora proprio qui nella “tranquilla” Lombardia un coordinamento regionale di quello che oggi – chi l’avrebbe mai detto – è il più grande movimento giovanile antimafia d’Italia: “Ammazzateci Tutti”. L’ho fatto perché sono figlio dell’Italia e degli italiani e qui in Lombardia rivivo gli stessi problemi e rivedo gli stessi soprusi che i miei genitori vivevano alla mia età. Non prendiamocela con il soggiorno obbligato, non cerchiamo scuse per allontanare quelle che sono le nostre colpe. La Lombardia, purtroppo, è oggi una delle regioni a più alto tasso di incidenza mafiosa d’Italia e proprio qui si ritrovano a gestire grossi e loschi affari le famiglie di Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta, della Camorra e della Sacra Corona Unita. E questo non perché i boss siano riusciti a conquistare e dominare una terra a loro straniera, ma solo perché vi hanno trovato un terreno fertile, fatto in larga misura da imprenditori, quelli del Nord, che hanno subito capito che con la mafia potevano raddoppiare se non triplicare i bilanci delle loro aziende. I mafiosi hanno forse trovato qui nelle nostre province gente più spietata di loro, gente che forse non ucciderà fisicamente, ma che di certo risulta facilmente corruttibile e disposta a comprimere ogni principio di libera economia, contribuendo in maniera tutt’altro che inconsapevole alla proliferazione delle consorterie criminali. Siamo noi adesso gli omertosi, caro Bossi. Siamo noi lombardi (probabilmente anche molti tra i suoi elettori) che sappiamo tutto e non diciamo niente! Sono gli occhi dei “lumbàrd” che vedono, le orecchie dei “lumbàrd” che sentono e le bocche dei “lumbàrd” che si tappano e diventano complici di quell’omertà che poi, in pubblico, con troppa facilità lei ed i suoi luogotenenti additate ai meridionali. Anzi, ad onor del vero non tutti i leader leghisti hanno in odio il popolo meridionale, perché al Ministro dell’Interno Maroni va riconosciuta un’azione seria e mirata contro la criminalità organizzata, frutto di un lavoro di squadra condotto in sinergia con uomini e donne del Sud da anni in prima linea in regioni come la Sicilia, la Calabria e la Campania. Non posso accettare che oggi, nel Terzo millennio, nell’era di Internet e della globalizzazione, della multietnicità e della mobilità internazionale, qualcuno ancora creda possibile screditare, attraverso un uso distorto ed in alcuni casi strumentale della storia e della realtà, un intero popolo che ha pagato a duro prezzo la costruzione di quello che oggi é il nostro Stato, quello stesso popolo che oggi vive anche qui a Busto Arsizio, a Varese, in Lombardia, in Italia. Chi ha voluto scriverle queste righe, Signor Ministro, è un lombardo di prima generazione, un “terrone del Nord”, che studia in un’università pubblica e che coltiva il sogno di poter un domani indossare la toga di magistrato. Fiero, come dovremmo esserlo tutti, di essere prima di tutto un cittadino Italiano.
*Coordinatore regionale per la Lombardia membro Esecutivo nazionale “Ammazzateci Tutti”
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