di Nino Amadore
Li guardi e pensi di essere nella patria di Pirandello. Ciò che sembra, qui, non è mai quello che è. C’è una ragione ontologica che fa dei calabresi un popolo a parte. Non è una questione razziale, per carità. Ma i calabresi sono diversi. Forse perché hanno la ‘ndrangheta che con quel nome così complicato sussume origini strambe e retaggi (veri) di brigantaggio. In Sicilia, se vogliamo, la Cosa nostra, la mafia, ha già contorni più definiti. Qui no. E torniamo al mistero delle apparenze. Quelle che non riescono a tirare fuori questa regione dalle secche del sottosviluppo, dell’arretratezza. Qui, a circa 500 chilometri di distanza da Agrigento, patria di Pirandello, è ancora più vero che nulla è ma tutto appare: il vero Caos è qui in questo fazzoletto di terra. Duemilioni di abitanti, 409 comuni per lo più piccoli se non piccolissimi, riti e costumi antichi, etnie che si fondono e un grande senso dell’onore e dell’amicizia. Che possono diventare, entrambi, trappole.
Non fai in tempo a prendere confidenza con un imprenditore, un politico, un burocrate che subito ti ritrovi i titoloni dei giornali che riportano di indagini, arresti, logge massoniche, intercettazioni telefoniche e avvisi di garanzia a manetta, usati come clava per colpire questo o quello. Insomma più avvisi che garanzia. Un tritacarne da cui non esce vivo nessuno. Un tritacarne da cui ci si salva, forse, con un pellegrinaggio al santuario di Polsi, quello dei summit di ‘ndrangheta.
Tempo fa Florindo Rubbettino, esponente di un famiglia di editori che ha dato gloria alla Calabria e al Sud pubblicando libri di prestigio e presidente dei giovani imprenditori calabresi di Confindustria, ha organizzato un convegno sul tema “La Calabria operosa e i suoi nemici” ed è lì, in quella circostanza, che mi è venuto di dire che i veri nemici della Calabria sono i calabresi. Oggi Florindo è uno dei motori del rinnovamento di questa regione: giovane, persona pulita, un modello cui tanti ragazzi guardano con speranza.
Un tempo, con parecchia retorica, si sarebbe detto: “Serve un colpo di reni”. Oggi, nel linguaggio asciutto del popolo internettiano, sembra più ovvio dire: datevi una mossa. Anche il declino è una direzione possibile per gli autolesionisti. Ma siccome con o senza consapevolezza i calabresi la strada del declino l’hanno percorsa fino in fondo e se è vero che al peggio non c’è mai fine oggi si sono ritrovati alla fine del peggio. Dunque toccato il fondo non si può che risalire, cercando una nuova strada, una nuova classe dirigente, un nuovo modo di pensare. La testardaggine dei calabresi, luogo comune abusato, applicata alla logica della rinascita e anche quelli che sono difetti da trasformare in pregi. La testardaggine che diventa perseveranza in un momento storico di grande attenzione per questa regione. E a quel punto diventa giocoforza comunicare il meglio, aspirare alla bellezza, preservare ciò che di positivo è stato costruito, avere progetti, condividere scelte di progresso, emarginare i corrotti, ridare, in una parola, fiducia ai cittadini. Ecco, questo disegno ha alcuni protagonisti che, però, ogni tanto sbandano, si confondono, vorrebbero ma non possono. E chi ci dice che sia solo una questione di coraggio non ricorda bene quella che fu la classe dirigente di questa regione che proprio poco coraggiosa non si direbbe. Basterebbe pensare a Giacomo Mancini, il dirigente socialista che ha fatto grande Cosenza e su altri fronti si narrano le gesta di Riccardo Misasi. C’era del coraggio anche nella perversione del consenso generato dal quel sistema cui nessuno, si può dire, è stato estraneo. Neanche i comunisti, come racconta Enzo Ciconte nel suo saggio sulla ‘ndrangheta : un preziosissimo librino sulla criminalità organizzata in Calabria pubblicato proprio da Rubbettino.
[ad#ambiente]
Scopri di più da Nino Amadore
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.