La sconfitta di Mimì La Cavera ha determinato in Sicilia la vittoria dei ceti parassitari e spesso mafiosi con conseguenze ancora oggi evidenti sullo sviluppo dell’isola. Un primo dato è sotto gli occhi di tutti ed è il risultato delle politiche praticate in Sicilia a partire dal 1959, anno in cui La Cavera è stato espulso da Confindustria: il socialismo municipale, l’invadenza del pubblico in economia, il dominio delle cosche mafiose e la loro alleanza con un certo tipo di imprese disponibili a tutto, la consuetudine di assumere il personale della regione senza concorsi, l’ingrassare l’apparato pubblico senza alcun criterio di merito.
Sono questi alcuni punti sviluppati nel libro “L’Eretico, Mimì La Cavera un liberale contro la razza padrona” edito da Rubbettino che sarà distribuito nei prossimi giorni in tutte le librerie. Il volume si propone di ricordare il primo presidente di Confindustria Sicilia scomparso l’anno scorso a 95 anni (ne avrebbe compiuti 96 fine novembre) e ne racconta la lotta per lo sviluppo della Sicilia da lui condotta e osteggiata da parecchi: dagli agrari e alleati con una parte della Dc, alle imprese monopolistiche degli anni Cinquanta e Sessanta che si impegnarono per far cacciare La Cavera da Confindustria e poi per condizionare l’azione di supporto allo sviluppo della regione.
Il libro scritto dal giornalista siciliano Nino Amadore, corrispondente da Palermo del Sole 24Ore, racconta tra le altre cose degli ostacoli alla Sofis, la Società finanziaria voluta da La Cavera, il Milazzismo con i suoi limiti e le sue potenzialità cui alcune forze politiche si ispirano ancora oggi, l’amicizia con Enrico Mattei, il partigiano bianco che portò con sé in Sicilia Graziano Verzotto e l’insediamento dell’Eni nella regione tanto osteggiato dalla Gulf. Mimì La Cavera era un uomo lungimirante che si muoveva nella complicata società siciliana del tempo e nonostante i suoi tanti nemici (a partire dall’ex presidente della regione e poi ministro dell’Interno Franco Restivo e dalla Dc fanfaniana) è riuscito a realizzare cose importanti per l’isola come l’insediamento della Fiat a Termini Imerese la cui chiusura Mimì ha vissuto come una sconfitta personale.
E poi la vicenda della Sirap, la società che doveva gestire le aree artigianali di nuova concezione per dare supporto alle Pmi siciliane e che invece è diventato un affare per la mafia e per le imprese del Nord come hanno dimostrato i processi. Ci sono tante intuizioni nel pensiero e nella pratica quotidiana di quest’uomo nato nel partito liberale e finito tra i sostenitori del Pci e in particolare dell’area migliorista: Emanuele Macaluso è stato fino all’ultimo uno dei migliori amici di La Cavera, il direttore del quotidiano L’Ora uno dei suoi interlocutori privilegiati.
Lo stesso capo dello Stato Giorgio Napolitano, che ricorda Mimì con un messaggio pubblicato nel libro, è stato suo interlocutore e sostenitore in Parlamento di iniziative a sostegno della Sicilia onesta e in generale del Mezzogiorno.
da 2005 in poi, anno in cui La Cavera viene nominato presidente onorario di Confindustria Sicilia, comincia il riavvicinamento umano e culturale del presidente con gli attuali dirigenti dell’associazione imprenditoriale: i riferimenti sono l’attuale presidente Ivan Lo Bello ma soprattutto Antonello Montante, il vicepresidente delegato alla legalità e ai rapporti con le autorità preposte al controllo del territorio dal presidente nazionale Emma Marcegaglia.
A Mimì si ispira la Confindustria della Marcegaglia che si batte contro l’invadenza del pubblico nell’economia e a favore di una pianificazione ordinata e attenta alla legalità. A La Cavera si ispirano molti imprenditori che investono sulla ricerca per uscire dal tunnel della crisi, come Giorgio Cappello, oggi presidente della Piccola industria di Confindustria a Ragusa.
Per tornare a La Cavera, hanno detto i suoi amici: non si è arricchito e ha vissuto fino all’ultimo con la pensione da dirigente regionale, lui che era stato un grande protagonista della storia non solo siciliana. Lui che per la commissione Antimafia doveva essere in odor di mafia solo perché aveva accumulato successi e aveva molti incarichi in alcune società siciliane.
E forse il suo errore (ha detto Pio la Torre) era solo quello di essere insieme a Vito Guarrasi vicino al Pci. E’ stato, ha detto il senatore Emanuele Macaluso, “Un piccolo profeta disarmato”.
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