“Scusate se non sono morto”. La frase arriva al termine di un intervento di quasi 40 minuti. La pronuncia Giuseppe Antoci, l’ex presidente del Parco dei Nebrodi vittima di un attentato nella notte del 17 maggio 2016.
Accanto a lui il presidente della commissione nazionale Antimafia Nicola Morra che lo guarda quasi attonito. Alla fine porge un bicchiere d’acqua ad Antoci: “Prenda, beva e si prenda una pausa. La vedo emotivamente provato” gli dice.
La seduta della commissione potrebbe anche finire lì perché quanto andava detto è stato detto e anche di più. Antoci aspettava da tempo questo momento e ha colto l’occasione per replicare, punto punto, a tutte le illazioni, le tesi, le accuse, le maldicenze che si sono cumulate in questi anni sull’attentato da lui subito. A tratti leggendo la relazione che aveva preparato a tratti andando a braccio ma sempre con quel filo di voce turbato. Nessuno si aspettava quella conclusione eppure si aveva la sensazione che quella frase, scusate se non sono morto, fosse implicita a ogni passaggio del discorso dell’ex presidente del Parco dei Nebrodi. Chi conosce Antoci se lo aspettava sin dall’inizio dell’intervento: “Questi sono stati anni difficili anche per la mia famiglia costretta a vivere il mio elevato regime di sicurezza vedendo la propria casa presidiata dall’esercito – ha detto l’ex presidente del Parco dei Nebrodi -. Ma sono stati anche anni pieni di soddisfazione per l’importante opera di rispristino di legalità che tante procure hanno potuto compiere, sull’argomento Fondi europei in mano alle mafie, grazie al protocollo e alla norma poi creata. Certo se tutto ciò ha da un lato assicurato alla giustizia tanti mafiosi e consentito di sequestrare loro milioni di euro di beni, dall’altro ha anche certamente ancora di più sovraesposto la sicurezza mia e quella della mia famiglia”.
E quella frase, scusate se non sono morto, rende perfettamente il senso di quello che è accaduto sui Nebrodi e in Sicilia in questi anni: il capovolgimento della realtà. Sembra quasi, oggi, che gli onesti si debbano giustificare per quello che dicono o per quello che fanno mentre i disonesti possono liberamente commentare, alimentare le dicerie, stravolgere il senso delle cose. E’ stato utile l’intervento di Antoci in commissione Antimafia soprattutto perché ha messo in chiaro alcune questioni e ha reso lineare un dibattito che qualcuno aveva provato a buttare in caciara nella solita logica della confusione. Così abbiamo integrato, con la versione dell’interessato, certe versioni di parte e parziali di tutta la vicenda: quelle lette nella relazione della commissione regionale Antimafia guidata da Claudio Fava. Quelle ricostruzioni che, però, il giudice per le indagini preliminari di Messina Simona Finocchiaro ha definito frutto di “elucubrazioni mentali…preconcetta e comunque non supportata da alcun dato probatorio”. Poteva bastare questo a chiudere il dibattito ma non è andata così. Lo ha chiarito il senatore Franco Mirabelli del Pd che ha chiesto un intervento fermo e deciso, censurando il comportamento del figlio del giornalista ucciso dalla mafia: Fava non ha risposto alle questioni che abbiamo posto, ha detto più o meno Mirabelli.
Non è questione secondaria e lo si è capito anche dalle accuse di Antoci, gravi se pronunciate in una sede come il Parlamento: Fava e la commissione regionale non hanno tenuto conto di alcuni documenti che smentivano chiaramente la loro tesi. Perché? Hanno scelto, lo scrive il sostituto procuratore di Messina Fabrizio Monaco, di utilizzare “atti privi di significativa rilevanza, quali l’audizione di giornalisti (Viviano, Basso, Barresi, Mondani, Anselmo), e la raccolta di opinioni di asseriti esperti di criminalità organizzata locale: l’ex dirigente del Commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto (Ceraolo) ed un maresciallo dei carabinieri, comandante all’epoca della stazione dei carabinieri di Cesarò (Lo Porto), entrambi in pensione al momento della loro audizione”. E siccome le parole della magistratura messinese non piacciono e non sono utili ai soliti mestatori e strateghi della confusione è cominciato immediatamente l’attacco, attraverso i soliti blog abituati alla calunnia editi da soggetti addirittura pregiudicati, nei confronti del procuratore di Messina Maurizio De Lucia. Abituati agli arresti della mafia militare ci si dimentica che la mafia siciliana ha qualcosa di peculiare e profondo perché ha radici antiche, perché può contare sull’appoggio delle classi dirigenti e sull’appoggio dei cretini, come ha ben scritto Nando dalla Chiesa nel libro “La convergenza—Mafia e politica nella Seconda Repubblica” (Edizioni Melampo).
Eppure bastava poco. Bastava poco per chiudere questa vicenda che non fa bene a nessuno. E invece no: è andata diversamente. “Tanti di voi hanno chiesto al Presidente Fava di scusarsi. Gliel’ho chiesto anche io – dice Antoci -. Il Presidente Fava non solo non lo ha fatto ma è uscito da qui, dopo l’audizione e ha continuato ad attaccare i Magistrati ritenuti superficiali e questa stessa Commissione. Bene allora visto che è così chiedo io scusa a tutti, scusa per l’ignobile spettacolo che si è dato ai cittadini, scusa perché è stata messa in discussione la tenuta e la credibilità delle Istituzioni ma scusa, soprattutto, per non essere morto quella notte insieme agli uomini della mia scorta. Se ciò fosse accaduto sono certo che ogni 18 maggio qualcuno che ha tentato di denigrare sarebbe stato davanti a quella lapide a usare parole roboanti e ad esaltarci. E allora sono io che chiedo scusa. So di non essere stato il primo a ricevere fango, è successo a tanti che hanno lottato le mafie e, alcuni di loro, che oggi non ci sono più, hanno subito cose simili, ma spero nel profondo del mio cuore di essere l’ultimo”.
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